A cura di: Studio Spinapolice & Partners
A dicembre 2009, con un investimento di circa 40 milioni di euro, GBM BANCA (Gruppo Bancario Mediterraneo), fondata dall’ex Presidente delle Poste Enzo Cardi, acquisisce l’ex Banca Federiciana di Andria con un progetto così ambizioso da vedere coinvolti personaggi italiani di grande spessore nonché pezzi di politica, prevalentemente legati al PD.
Principale azionista del Gruppo con il 15,4% era la ImmPro, finanziaria milanese facente capo ad alcuni imprenditori e professionisti baresi, tra i quali spiccavano le famiglie Cobol e Vitulano (Indeco). Altri investitori importanti: con il 9% il leccese Rino Morelli (Armafer), con il 5% la famiglia Pomarico (supermercati) e la belga Photonike, società che si era interessata a rilevare lo stabilimento barese della ex Om.
La struttura amministrativa, azzerata con la procedura di amministrazione straordinaria disposta con Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 1° ottobre 2015, era un vero e proprio modello di capitalismo di relazione. Nel c.d.a. della banca sedevano l’ex Presidente Agcom Corrado Calabrò e Maurizio Romiti, nel comitato etico ci fu per un periodo anche l’ex commisario CONSOB Paolo Di Benedetto, marito dell’allora ministro Severino.
L’ingente investimento, però, non solo non ha fruttato un centesimo, ma il patrimonio è stato eroso da perdite che, nell’ultimo bilancio consolidato al 31.12.2014, ammontavano a circa 2,5 milioni. Nonostante questo, GBM avrebbe messo in atto operazioni spericolate tanto da finire spesso nel mirino di Bankitalia, con conseguenti pesanti multe per carenze nei controlli interni.
A inizio anno 2015, si era tentato un salvataggio della capogruppo GBM HOLDING sotto forma di aumento di capitale da 30 milioni, sottoscritto poi in pratica per solo 2,4 milioni. Così, in ottobre, il commissariamento, procedura che si è conclusa il 31 gennaio 2017 grazie al via libera della BCE, su proposta di Bankitalia, a procedere con il piano di risanamento attraverso la cessione al fondo di private equity MCP INVESTMENTS II Sarl per il 75,36% e alla NOVEMBRE UK Ltd (società riconducibile a Nicola Bonito Oliva, già manager di Dresdner Bnak Italia, e Filippo Cortesi, uno dei primi manager di Banca Sistema) per il 21,43%, per un investimento totale di 27 milioni di euro: 20 milioni di ricapitalizzazione e 7 del prezzo di cessione.
Evitata, dunque, la liquidazione coatta, salvaguardati temporaneamente 35 posti di lavoro (a novembre 2017 verrà chiusa la sede storica di Andria, con conseguenti licenziamenti) ed i conti di circa 2500 clienti. Ma gli azionisti della prima ora?
Nella relazione dei Commissari Straordinari al Bilancio dell’Amministrazione Straordinaria dal 1 gennaio 2015 al 31 gennaio 2017, si legge una riduzione del valore nominale delle azioni da euro 1.000,00 a euro 246, con una perdita di oltre il 70%. Peraltro, non essendo quotata in borsa, le azioni di GBM BANCA non erano negoziabili sul mercato, come quelle di molti altri Istituti (v. Banca Etruria o Banca Popolare di Vicenza), ma cedibili solo a mezzo atto notarile, come per qualsiasi società non quotata. Poiché da anni la Banca naviga in cattive acque, va da sé che le quote in pratica erano invendibili, perché non si trovavano acquirenti.
La vicenda di GBM BANCA, con gravi perdite per risparmiatori ed azionisti (spesso indotti all’acquisto di quote per ottenere un fido aziendale garantito anche da fidejussioni personali…), si aggiunge alla drammatica storia degli Istituti di Credito pugliesi Banca Popolare di Bari, Banca Popolare della Puglia e Basilicata e Banca Popolare Pugliese.
Racconti di ordinaria follia del sistema bancario italiano, che continua a mietere vittime da Nord a Sud tra i piccoli risparmiatori; già, perché i grandi investitori e gli amministratori delle banche sostanzialmente fallite ne escono sempre bene.
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Gli ultimi aumenti hanno interessato soprattutto i conti online: da agosto 2017 ad oggi, i costi dei conti via Internet puri hanno subito aumenti in media del 27%. Da fine novembre, invece, il costo annuo di un conto tradizionale nel canale online è salito del 3,8% e dell’1,5% per i conti normali, che avevano visto notevoli aumenti già nell’anno passato (20% in media in più da gennaio 2016 a novembre 2017).
Ad incidere fortemente sui rincari –i dati sono relativi all’Isc, l’indicatore sintetico di costo annuo- soprattutto l’aumento del canone della carta di credito nonché la commissione per la ricarica delle carte di pagamento. Una riflessione sorge spontanea: la spinta ad eliminare di fatto l’utilizzo del contante ha portato inevitabilmente ad una maggiore diffusione degli strumenti elettronici di pagamento; i benefici per gli istituti bancari sono evidenti, ma il costo di questo cambiamento grava interamente sulle famiglie e sugli utenti in genere.
A tutto ciò si aggiunga che i tassi attivi sono ormai zero. non più solo per le banche online, ma anche per tutti gli altri, e l’imposta di bollo, che è di € 34,20 sopra i 5mila euro di giacenza. Praticamente per pareggiare spese di tenuta conto, bollo e imposte sui rendimenti (26%), bisognerebbe avere depositi ultramilionari.
Insomma, tra salvataggi, rincari e rendimenti azzerati, il tutto condito dalla difficoltà di districarsi tra i documenti della cosiddetta “trasparenza”, i costi a carico dei correntisti si fanno sempre più alti e la giacenza sul conto sempre più bassa…
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Non te lo aspetteresti mai. Ma il segno più è inequivocabile e più non mente. Gli istituti di credito italiano, tutti, nell’anno 2017 hanno fatto registrare grandi segnali in attivo.
Certo, c’è l’eccezione che conferma il trend straordinariamente positivo, ma è appunto una mosca bianca (Monte dei Paschi di Siena, per la precisione). Ma andiamo con ordine. UniCredit si conferma la prima della classe: dopo aver fatto registrare lo scorso anno una crescita oltre le più rosee aspettative, l’ultimo semestre –che abbraccia anche gennaio 2018- parla altrettanto chiaro coi 476 milioni di euro in attivo, con una crescita del 14%.
MedioBanca vive momenti di splendore con il suo utile record di 523 milioni (+23%), mentre Ubi torna in grande utile facendo registrare 690 milioni di euro di utili, colmando il gap in rosso degli 800 milioni bruciati nel 2016. Certo, Ubi nel 2017 ha inglobato le ‘good bank’ Banca Marche, Banca Etruria e CariChieti, ma anche senza l’acquisizione della parte positiva avrebbe fatto risaltare il +188 milioni di euro.
Vivremo un 2018 in cui saranno erogati mutui a famiglie monoreddito e giovani coppie? O accesi finanziamenti a imprese che vogliono migliorare il proprio know how per non restare indietro nel mondo veloce dell’economia globalizzata?
Tra le note stonate ancora MpS. Infatti, la banca più antica del mondo ha fatto registrare una perdita di 3,5 miliardi di euro. Ma la voragine non toglie il sonno al ministro dell’economia Piercarlo Padoan, sebbene il passivo è aumentato dell’8% rispetto al 2016: per la banca a maggiore capitale pubblico servono altri anni per sorridere. A spese dei contribuenti.
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C’è un testo, “L’enigma della crescita” del professor Luca Ricolfi, che chiunque governi dovrebbe studiare ed utilizzare per orientare le proprie scelte.
In esso, tra le tante ed approfondite cose, sono analizzati in maniera scientifica i fattori che influenzano la crescita economica di una Nazione: il capitale umano, il benessere dei cittadini, le tasse sull’impresa ed i suoi utili, gli investimenti diretti esteri, la qualità delle istituzioni.
(1)Intervenire sul capitale umano è una partita di lungo periodo: si tratta di scuola, di cultura, di senso del dovere e dello Stato. Una partita, si permetta una battuta amara, che si potrà ricominciare a giocare quando saranno finiti i TFR dei padri, che stanno mantenendo i figli al rientro dall’erasmus. C’è da ricostruire, anche simbolicamente, un intero apparato di valori e competenze.
(2)Quanto al nostro benessere, e torniamo ai fasti dei TFR di un tempo, è evidente che anni di tranquillità economica abbiano reso meno urgenti certe istanze di miglioramento.
(3)E che le nostre imprese vedano erosi i propri guadagni dall’erario è un altro fatto troppo banale per essere ricordato. Troppo banale e troppo velleitario pensare alla soluzione della riduzione delle tasse: lo si dice da sempre, ma se non si mette mano alla spesa pubblica non si può e con i chiari di luna delle finanziarie che si annunciano certamente è impossibile.
Meglio pensare ad un patto tra cittadini e Stato che permetta quantomeno di arrivare agli obbiettivi minimi di certezza e trasparenza dell’imposizione. Si dia almeno agli imprenditori la possibilità di fare politica e pianificazione fiscale.
(4)(5)Dove invece si può intervenire “qui e ora” è sulle altre due forze che governano la crescita: gli investimenti esteri e le nostre istituzioni. La nostra Nazione è appetita dagli investitori di tutto il mondo: nessuno “bello” come noi, nessuno capace come noi, nessuno con la nostra storia.
Ma al di là dell’imposizione fiscale, che è più alta di certi luoghi, ma meno che in altri, il problema principale che limita l’attrattività del paese è l’inefficienza della Pubblica Amministrazione e dei Tribunali.
Il topos su cui si gioca la crescita, quantomeno quello sul quale possiamo e dobbiamo intervenire è il tempo.
Al di là delle leggi amministrative, ricchissime di petizioni di principio, nessuno è in grado di sapere quale periodo possa intercorrere tra il momento dell’istanza e quello della risposta. Se oggi un imprenditore chiede di essere autorizzato a costruire, a svolgere una certa attività, ad implementare un nuovo ciclo produttivo, l’autorizzazione o il diniego può giungere anche dopo anni.
Eppure i termini ci sono, le norme li prevedono. Ma non vengono, nella quasi totalità dei casi, rispettati da parte di chi opera all’interno degli Enti Pubblici cui spetta la responsabilità di emettere il provvedimento. E siccome una decisione è buona solo se è tempestiva, gli imprenditori di turno, specie se stranieri, non investono. Ciò accade per una ragione molto semplice: il funzionario pubblico inefficiente non ha nulla da temere.
La giurisprudenza fatica a riconoscere il tempo come “valore in sé”, è dunque il rimedio risarcitorio è impraticabile: bisognerebbe dare la prova, evidentemente diabolica, che la risposta tempestiva sarebbe stata anche positiva. Esiste altresì una sanzione penale, l’articolo 328 comma II, c.p., che punisce il ritardo, ma è sufficiente per colui che venga messo in mora spiegare le ragioni di tale ritardo per andare esente da ogni responsabilità. Una situazione certamente illiberale.
Se, ad esempio ed ex multis, un portatore di partita IVA non presenta la dichiarazione dei redditi entro i termini stabiliti dalla legge, viene sottoposto a processo penale per “omessa dichiarazione”. Ed allora perché se a non rispettare i termini è un dipendente pubblico non vi è una norma simile? A quale principio di diritto positivo o naturale si ispira questo ordine di cose? A nessuno evidentemente.
Le regole sono importanti, anzi sono la cosa più importante, ma debbono valere per tutti. Una piccola percentuale di cittadini italiani sceglie di imprendere, di rischiare, di creare sviluppo; l’altra, la più rilevante, legittimamente di stare tranquilla, di percepire uno stipendio e di tornare a casa presto la sera. Ma le leggi sono tutte a protezione della maggioranza meno esposta e nessuna tutela invece i pochi coraggiosi che rischiano. Paradossale, ma vero.
Sia chiaro, l’imprenditore che opera illecitamente va sanzionato severamente, ma quello virtuoso va tutelato come fosse un quadro rinascimentale. Un primo passo verso l’auspicato riequilibrio potrebbe essere rappresentato dall’introduzione di sanzioni amministrative e penali per “l’inefficienza pubblica”, né più tenui, né più aspre di quelle previste per quella privata.
L’equazione è facile: responsabilizzare i funzionari pubblici significa riequilibrio del binomio cittadino/Stato, significa rispetto dei termini, significa maggiori investimenti. Una riforma a costo “0”, con un grande ritorno.
Non a costo “0”, ma con altrettanto grande ritorno sarebbe l’intervento sui Tribunali.
Il nostro ordinamento è uno dei più sofisticati e garantisti del mondo, con buona pace di Kelsen e dei vari provinciali, che vedono sempre nei formanti stranieri la soluzione del problema. Il vulnus è, ancora una volta, quello dei tempi. Il mondo del penale è ormai rovesciato, per così dire: il colpevole ha la speranza della prescrizione (o comunque delle misure alternative al carcere), l’innocente la prospettiva di un calvario che dura anni. Quello del civile, si perdoni la volgarità, è una macchina che mangia soldi. Un esempio lampante su tutti emerge dai dati che derivano da uno studio della Banca d’Italia e cristallizzato nella “Nota di stabilità finanziaria e vigilanza (n. 3, Aprile 2016). Da essa si apprende che al dicembre 2015 il totale dei crediti deteriorati, cioè denaro che la Banca ha erogato e che fatica o ha perso ogni speranza di recuperare, ammontava a 360 miliardi di Euro. Una cifra impressionante. E si apprende altresì che la cifra che gli operatori di mercato specializzati sono disposti ad offrire per acquistare tali crediti è inversamente proporzionale ai tempi di recupero giudiziali. Volgarmente: più il Tribunale fa in fretta ad accertare il credito ed a eseguirlo, più quel credito vale sul mercato. Tale studio stima che l’accorciamento di tali tempi anche di un solo anno accrescerebbe il prezzo di 4,6 punti percentuali. Se si applica tale percentuale al totale dei menzionati crediti deteriorati si ottiene una cifra miliardaria, una finanziaria. Miliardi che, al netto delle perdite, irrorerebbero di linfa vitale gli istituti di credito e di conseguenza il sistema economico. Non è difficile da comprendere che più la Banca “sta bene”, più eroga credito e meno lo Stato deve intervenire per sostenerla. Tribunali più efficienti uguale più soldi nel sistema e meno spesa pubblica.
Per raggiungere questo risultato la ricetta passa attraverso tre punti fondamentali. (1)Nuove risorse per i Tribunali in termini di personale amministrativo. L’ultimo concorso risale agli anni ’90 e servirebbe poco in termini di investimento (la cifra non supera lo 0,3 del bilancio dello Stato, del quale la Giustizia è la cenerentola), (2) meritocrazia nella scelta dei capi degli Uffici, (3) specializzazione degli avvocati.
L’efficienza delle istituzioni è “il problema”, è la cosa sulla quale costa meno intervenire e che darebbe i maggiori frutti. Si legga Ricolfi, si studino i numeri e si decida. “Il tempo” stringe.
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Quello del Monte di Pietà. Eh sì, tra monete parallele dal profumo virtuale (bitcoin cianciando) e banconote in via di estinzione nel nome di un distopico dominio bancario non tramonta il banco dei pegni.
Una storia che affonda le proprie radici al 1400, quando a corto di liquidità e in grave difficoltà si faceva ricorso al credito su pegno: nell’evoluzione bancaria sopravvive questo giro d’affari che vede sempre le banche protagoniste. Il metodo, a distanza di secoli, è sempre lo stesso. Si affidano a uno sportello i beni di famiglia (ori, preziosi vari, orologi) per un prestito a breve termine, scaduto il quale o si riscatta il bene impegnato –con il pagamento di interessi- o questo finisce all’asta.
In un mondo che macina miliardi e che volge lo sguardo ad altri beni preziosi (l’acqua, non solo fossili e minerali), il giro d’affari dei beni impegnati in Italia si aggira attorno agli 850 milioni di euro, come dichiara Assopegno per il volume attestato nel 2016. Contrariamente a quanto si può credere, il credito su pegno resta anche una delle attività degli istituti di credito, anche se il maggior gruppo bancario italiano, Unicredit, a fine 2017 ne è uscito cedendo alla storica austriaca Dorotheum tutte le sue attività per un giro complessivo di affari che sfiora i 140 milioni di euro. In questo mercato è attivo il Credito siciliano, ha rinnovato la sua azione Ubi acquisendo anche le filiali di Banca Marche.
E quindi? C’è l’affare? Beh, le banche prestano al massimo mille euro, un prestito molto temporaneo, e spesso, dati Assopegno, i beni impegnati vengono riscattati per il 95%, col solo 5% che finisce battuto all’asta. E il guadagno delle banche? Sugli interessi. Nient’affatto bassi: Unicredit aveva un tasso sulla liquidità concessa pari al 16,71%, Credito siciliano al 18,54% e Ubi al 12,04%. Un mercato che non smette di crescere, tant’è che Banca Sistema lo scorso anno ha lanciato la app Prontopegno, con cui è possibile richiedere on line una perizia e una valutazione preliminare del bene con la massima discrezionalità. Anche perché, in un mondo che inghiotte soldi su soldi, resta la pudicizia di chi, in difficoltà, chiede un piccolo prestito.
A cura di: Studio Spinapolice & Partners
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