ANNO XII - &MAGAZINE - 

Regolamento UE: Privacy e Burocrazia

Nel comunicato stampa pubblicato sul sito del Garante privacy (per la protezione dei dati personali) lo scorso 8 ottobre, si legge che sul sito stesso sono disponibili le istruzioni inerenti il Registro delle attività di trattamento, previsto dal Regolamento (UE) n. 679/2016, denominato GDPR.

Testualmente riportiamo:

Il Registro, che deve essere predisposto dal titolare e del responsabile del trattamento, è un documento contenente le principali informazioni (specificatamente individuate dall’art. 30 del Regolamento) relative alle operazioni di trattamento svolte da una impresa, un’associazione, un esercizio commerciale, un libero professionista.

L’obbligo di redigere il Registro costituisce uno dei principali elementi di accountability del titolare, poiché rappresenta uno strumento idoneo a fornire un quadro aggiornato dei trattamenti in essere all’interno della propria organizzazione, indispensabile ai fini della valutazione o analisi del rischio e dunque preliminare rispetto a tale attività. 

Il Registro deve avere forma scritta, anche elettronica, e deve essere esibito su richiesta al Garante.

Come specificato nelle FAQ del Garante, sono tenuti a redigere il Registro le imprese o le organizzazioni con almeno 250 dipendenti e - al di sotto dei 250 dipendenti - qualunque titolare o responsabile che effettui trattamenti che possano presentare rischi, anche non elevati, per i diritti e le libertà delle persone o che effettui trattamenti non occasionali di dati oppure trattamenti di particolari categorie di dati (come i dati biometrici, dati genetici, quelli sulla salute, sulle convinzioni religiose, sull’origine etnica etc.), o anche di dati relativi a condanne penali e a reati.

Nelle FAQ vengono indicate, tra l’altro, quali informazioni deve contenere il Registro e le modalità per la sua conservazione e il suo aggiornamento.

Questo Regolamento Ue, consultabile sul sito del garante, consta di ben 112 pagine. Pertanto, forse rendendosi conto della complessità della questione, il comunicato stampa cita una pagina di FAQ per contribuire a chiarire come andrà tenuto questo registro e chi sarà tenuto a farlo.

In un mondo dove i nostri dati personali sono diffusi in mille rivoli informatici, dalle carte di credito, ai telefoni cellulari, agli abbonamenti e partecipazione a concorsi, raccolte punti, ecc., per non dire dei social; in questa grande piazza mediatica, insomma, ci chiediamo: ha davvero senso imporre ulteriori procedure burocratiche alle aziende già soffocate di adempimenti?  Se il principio è l’autodisciplina, perché non pensare ad una semplice dichiarazione annuale da inviare al Garante, magari via PEC?

E ancora, in una Europa dove sempre più forte soffiano venti secessionisti ed anti UE, continuare ad appesantire burocraticamente le imprese con inutili e farraginosi adempimenti è la strada giusta per guardare al futuro con serenità?

Nel nostro Paese, dove l’eccesso di burocrazia sta soffocando cittadini e imprese, questa UE,  non fa altro che appesantire la già gravosa zavorra burocratica, e contribuisce a sottrarre ulteriore competitività alle aziende italiane.

 

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Amministratori: compenso dovuto.

Il compenso all'amministratore è sempre dovuto. L’attività di amministratore di una società non può essere gratuita, salvo rinuncia chiaramente espressa.

Il diritto a percepire il compenso non può essere subordinato ad una richiesta dell’amministratore. Questo, in sostanza, quanto ribadito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 24139 del 3 ottobre 2018.

“L’incarico di amministratore di società si presume a titolo  oneroso; il compenso è dovuto all’amministratore a prescindere dal fatto che egli lo richieda; la gratuità dell’incarico può derivare da una apposita clausola in tal senso contenuta nello statuto della società o nel contratto con il quale viene conferito l’incarico di amministrazione; l’amministratore può rinunciare, anche tacitamente, al compenso che gli sarebbe dovuto”.

Secondo la Suprema Corte, dunque, non va confuso un comportamento meramente omissivo con una rinuncia valida ed efficace, prevista dall’art. 1236 c.c.

La vicenda processuale inizia davanti Tribunale di Gorizia, al quale si rivolge un manager, che aveva rivestito il ruolo di amministratore da dicembre 2001 a maggio 2006, contro una s.r.l. che non gli aveva pagato il compenso. Il Tribunale condanna la società al pagamento degli emolumenti in misura ridotta rispetto a quanto richiesto.

La Corte di Appello, però, ribalta la sentenza di primo grado, accogliendo la tesi della s.r.l., secondo la quale il manager, per comportamento concludente (non avendo richiesto alcun compenso né durante l’attività svolta né in fase di dimissioni, ma solo nel 2007, richiamandosi a quanto previsto dall’art. 17 dello statuto societario), avrebbe sostanzialmente rinunciato al compenso.

Il ricorso in Cassazione si basa su due motivi fondanti, che vengono entrambi accolti perché “secondo i principi del sistema vigente, quello di  amministratore di società è contratto che la legge presume oneroso (la norma dell'art. 1709 cod. civ. dettata con riferimento allo schema generale dell'agire gestorio e senz'altro applicabile anche alla materia societaria, come pure posta a presupposto delle previsioni dell'art. 2389 cod. civ., specificamente scritte per il tipo società per azioni).

Non v'è dunque ragione di ritenere che il diritto a percepire il compenso rimanga subordinato a una richiesta che l'amministratore rivolga alla società amministrata durante lo svolgimento del relativo incarico. Come ha correttamente precisato la recente pronuncia di Cass., 21 giugno 2017, n. 15382, con l'accettazione della carica, l'amministratore di società acquisisce il diritto a essere compensato per l'attività svolta in esecuzione dell'incarico affidatogli. Un'eventuale gratuità dell'incarico può procedere, di conseguenza, unicamente da una apposita previsione dello statuto della società interessata o da una apposita clausola del contratto di amministrazione."

 

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Mutuo in valuta estera e rischio cambio.

Una clausola contrattuale abusiva e poco chiara sul rischio di cambio per il mutuatario, non in linea con le disposizioni legislative, può essere soggetta a controllo giurisdizionale.

Questo, in sostanza, quanto stabilito dalla Corte di Giustizia UE nella causa C 51/17 con la sentenza del 20 settembre 2018.

La causa verteva su un caso di un mutuo  stipulato da una banca ungherese, espresso in franchi svizzeri, stipulato nel 2008 le cui rate mensili venivano calcolate al tasso di cambio corrente tra il fiorino ungherese e il franco svizzero.

Nel corso di un procedimento giurisdizionale promosso nel 2013 dai mutuatari (danneggiati dall’aumento notevole subito dalle rate mensili di mutuo, a causa delle sensibili variazioni del tasso di cambio) dinanzi ai giudici ungheresi,  è emersa la questione se la clausola del rischio di cambio fosse stata redatta in modo non chiaro e comprensibile e fosse, pertanto, da considerarsi abusiva, ai sensi della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente appunto le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

Nel 2014, in pendenza del procedimento suddetto,  lo stato ungherese ha emanato una normativa volta ad eliminare le clausole abusive dai contratti espressi in valuta estera e a convertire in UHF tutti i debiti contenuti negli stessi, applicando il tasso di cambio fissato dalla Banca nazionale di Ungheria. Tutto ciò anche in considerazione a quanto deciso dalla Corte Suprema ungherese (Kùria) sull’incompatibilità con le direttive europea di alcune clausole contenute nei contratti di muto in valuta estera.

Nel corso del procedimento, investita dalla controversia, la Corte di Appello regionale di Budapest-Capitale  ha chiesto alla Corte Europea se essa possa valutare l’abusività di una clausola, nel caso la stessa non sia espressa in modo chiaro e comprensibile, stante anche la carenza di intervento del legislatore ungherese su tale specifico punto.

A seguire, quanto testualmente contenuto nel comunicato stampa n. 137/18 della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

“Nella sua sentenza odierna, la Corte ricorda che la norma che esclude dall’ambito di applicazione della direttiva le clausole che riproducono disposizioni legislative o regolamentari imperative è giustificata dal fatto che è legittimo presumere che il legislatore nazionale abbia stabilito un equilibrio tra l’insieme dei diritti e degli obblighi delle parti del contratto. Tuttavia, ciò non significa che un’altra clausola contrattuale non oggetto di disposizioni legislative, come nel caso di specie quella relativa al rischio di cambio, sia anch’essa integralmente esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva. Il carattere abusivo di tale clausola può allora essere valutato dal giudice nazionale qualora consideri, in seguito ad un esame caso per caso, che essa non sia stata redatta in modo chiaro e comprensibile.

A tal riguardo, la Corte dichiara che gli istituti finanziari sono obbligati a fornire ai mutuatari informazioni sufficienti per consentire a questi ultimi di adottare le proprie decisioni con prudenza e in piena cognizione di causa. Ciò implica che una clausola relativa al rischio di cambio debba essere compresa dal consumatore sia sul piano formale che sul piano grammaticale, ma anche quanto alla sua portata concreta. Ne consegue che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, deve poter non solo essere consapevole della possibilità di deprezzamento della valuta nazionale rispetto alla valuta estera in cui il mutuo è stato espresso, ma anche valutare le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una clausola del genere sui suoi obblighi finanziari.

Inoltre, la Corte precisa che la chiarezza e la comprensibilità delle clausole contrattuali devono essere valutate facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che hanno accompagnato quest’ultima, nonché a tutte le altre clausole del contratto, sebbene alcune di tali clausole siano state dichiarate o presunte abusive e annullate, per tale ragione, in un momento successivo dal legislatore nazionale. Infine, la Corte conferma che spetta al giudice nazionale rilevare d’ufficio, in luogo del consumatore nella sua qualità di parte ricorrente, il carattere eventualmente abusivo di clausole contrattuali diverse da quella relativa al rischio di cambio, qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine.”

Ricordiamo che, come riporta chiaramente il sito della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell'ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione. La Corte non risolve la controversia nazionale. Spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.

 

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Assegno di mantenimento o divorzile e compensazione debiti.

E’ possibile compensare eventuali debiti con l’assegno divorzile o di mantenimento? In pratica, è possibile recuperare un proprio credito trattenendolo dal versamento dovuto all’ex coniuge? 

Innanzitutto, l’assegno divorzile va distinto dall’assegno di mantenimento, che spetta (ove stabilito) nella fase di separazione dei coniugi che è una fase ancora transitoria.

Interessante in tal senso la sentenza della Corte di Cassazione n. 11504/2017 (sentenza rivoluzionaria per diversi aspetti, che qui citiamo solo per ciò che strettamente si sta richiamando), che ha sottolineato chiaramente  la distinzione tra i due istituti. Infatti, ha affermato che il criterio di determinazione dell’assegno divorzile non può essere il mantenimento del tenore di vita , come durante la separazione, perché costituirebbe un sostanziale ripristino del rapporto matrimoniale, “in una indebita prospettiva, per così dire, di ultrattività del vincolo matrimoniale”.

Premesso che l’assegno di mantenimento è un diritto indisponibile, nonché imprescrittibile e irrinunciabile, fino a che il beneficiario non passi a nuove nozze o l’obbligato muoia o fallisca, sull’argomento la giurisprudenza negli ultimi anni ha fornito risposte contrastanti.

Alcuni Tribunali e la stessa Cassazione, considerando che l’assegno di mantenimento all’ex moglie non serve a garantirle lo stretto necessario per vivere (ma l’autosufficienza economica e, prima del divorzio, lo stesso tenore di vita che aveva durante il matrimonio), hanno ritenuto compensabile l’assegno di mantenimento con i crediti dell’ex marito.

Quest’anno, però, la stessa Corte Suprema, con ordinanza n. 11689/2018 del 14/05/2018, ha ribaltato i pareri precedenti, ritenendo non compensabile l’assegno di mantenimento, perché avente stessa natura e scopo degli alimenti.

Nessun dubbio sicuramente per quanto riguarda il mantenimento stabilito per i figli. In questo caso, la Cassazione ha chiarito che avendo carattere sostanzialmente “alimentare” non è lecito operare alcuna compensazione.

 

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Responsabilità medica e dovere di informazione.

La recente ordinanza n. 15749/2018 della Corte di Cassazione chiarisce in modo inequivocabile il valore sostanziale dell’informazione al paziente.

Prendendo spunto da un caso di ricorso di eredi di un paziente deceduto, ricorso peraltro respinto per carenza probatoria delle circostanze di fatto, la Suprema Corte esamina approfonditamente i casi in cui l’omessa informazione,

se denunciata e provata, può essere motivo di risarcimento nonostante il rispetto dei protocolli e delle linee guida.

Non è sufficiente, dunque, che un intervento chirurgico o comunque un atto terapeutico  venga eseguito perfettamente dal punto di vista tecnico per esonerare i sanitari dalla responsabilità colposa  rispetto a conseguenze non desiderate,  se il paziente non ha ricevuto chiare informazioni sugli eventi possibili, imprevedibili e negativi e dimostra che, se avesse saputo  tali rischi, non avrebbe accettato di sottoporvisi.

“…il principio per cui l’osservanza delle linee guida e delle buone pratiche costituisce solo elemento di valutazione e non di esclusione della colpa, dovendosi avere riguardo alla peculiare e concreta situazione del paziente al fine di stabilire se la condotta dei sanitari sia stata esente da colpa.”

“Occorre rammentare –si legge ancora nella sentenza- che la violazione, da parte del medico., del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; un danno da lesione del diritto di autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (e, in tal ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute”.

Pertanto, la violazione del dovere di informazione al paziente può determinare due diverse tipologie di danno: il danno alla salute e il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione.

 

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