A cura di: Studio Spinapolice & Partners
Le prime pagine dei giornali di tutto il mondo hanno ripreso, la settimana scorsa, un articolo pubblicato su Nature sul segnale prodotto dalle prime stelle dell’universo, captato dalle antenne australiane di Edges. Un segnale previsto già nel 2000 in un lavoro guidato da Paolo Tozzi, astrofisico all’Inaf di Arcetri. Media Inaf lo ha intervistato
Nei riquadri in alto, il grafico che mostra l'effetto della riga d'assorbimento dell'idrogeno osservato da Edges sulla radiazione cosmica di fondo all'epoca della fine dell'era oscura (fonte: Judd D. Bowman et al., Nature 2018).
In basso, il segnale previsto nel 2000 da Paolo Tozzi et al. (fonte: Apj) Depressione, avvallamento, morso. Chiamatela come volete, ma quella porzione del grafico compresa grosso modo fra i 70 e i 90 MHz, là dove la linea della temperatura di brillanza s’abbassa di quasi mezzo grado, se sarà confermata, è destinata a rimanere nei libri di scienza: è l’impronta della luce delle prime stelle. Stiamo parlando dell’articolo pubblicato la settimana scorsa su Nature, poi ripreso sui giornali di tutto il mondo, sulla riga d’assorbimento dell’idrogeno primordiale rilevata nello spettro della radiazione cosmica di fondo. Una misura che permette di datare con precisione la fine dell’era oscura dell’universo: 180 milioni di anni dopo il Big Bang.
Un risultato enorme, inseguito da tempo, ma difficilissimo da conseguire. Un risultato che ha stupito la comunità astrofisica. Non tutta, però. Per qualcuno, la prima impressione è stata quella d’un déjà vu. O meglio, déjà prévu: quattro scienziati, infatti, quella “tacca” nello spettro del fondo cosmico l’avevano prevista. Più o meno lì dove è ora stata effettivamente trovata. È tutto in un articolo pubblicato il 10 gennaio del 2000 su The Astrophysical Journal, intitolato “Radio Signatures of H I at High Redshift: Mapping the End of the Dark Ages” e firmato, nell’ordine, da Paolo Tozzi, Piero Madau, Avery Meiksin e – leggenda nella leggenda – niente meno che Sir Martin J. Rees, astronomo reale e presidente della Royal Society. Paolo Tozzi, il primo autore di quello studio, oggi è uno scienziato che lavora prevalentemente nell’ambito dell’astrofisica X all’Inaf di Arcetri. Vent’anni fa, però, giunto a Baltimora fresco di dottorato, per un po’ di tempo si trovò a occuparsi di altro.
«Era il 1998, avevo 29 anni, e avevo lasciato l’Italia per andare allo Space Telescope e iniziare un lavoro con Piero Madau su un argomento per me completamente nuovo: l’idrogeno primordiale», ricorda oggi Tozzi a Media Inaf ripensando a quel paper d’allora. «Che vuol dire tutto, perché a quell’epoca antica nell’universo – alla fine della dark age – non c'erano strutture, non c'era niente, c'erano solo materia oscura e barioni (e quindi prevalentemente idrogeno) distribuiti in modo omogeneo e immersi nella radiazione cosmica di fondo, e niente più. Ma sapevamo bene che l'idrogeno, dal punto di vista astronomico, può emettere attraverso la sua radiazione a 21 cm, e ci chiedevamo come fosse possibile stanarlo attraverso questo canale osservativo ben noto, un argomento su cui il gruppo di Piero Madau aveva già pubblicato alcuni lavori».
Inaf ripensando a quel paper d’allora. «Che vuol dire tutto, perché a quell’epoca antica nell’universo – alla fine della dark age – non c'erano strutture, non c'era niente, c'erano solo materia oscura e barioni (e quindi prevalentemente idrogeno) distribuiti in modo omogeneo e immersi nella radiazione cosmica di fondo, e niente più.
Ma sapevamo bene che l'idrogeno, dal punto di vista astronomico, può emettere attraverso la sua radiazione a 21 cm, e ci chiedevamo come fosse possibile stanarlo attraverso questo canale osservativo ben noto, un argomento su cui il gruppo di Piero Madau aveva già pubblicato alcuni lavori». Paolo Tozzi, astrofisico all'Inaf di Arcetri, primo autore dello studio pubblicato nel 2000 su Apj sulla firma dell'idrogeno ad alto redshift
Perché era così difficile da vedere, questa radiazione?
«Il problema è che all'epoca della dark age, non essendoci nulla se non una distribuzione uniforme, tutto era immerso in un bagno termico che rendeva l'intero universo d’un solo “colore”, uniforme, senza alcun segnale che rivelasse la presenza della materia diffusa. Allora cominciammo a ragionare su come l'idrogeno potesse rendersi visibile – se osservato nella frequenza a 21 cm emessa all'epoca, dunque osservabile oggi a frequenze molto più basse – quando comparivano le prime sorgenti. E mi ricordo che facemmo questo grafico, che poi divenne molto popolare, che mostrava la traccia lasciata dal doppio passaggio del gas, avvenuto all’epoca, prima dalla temperatura del fondo al freddo, poi dal freddo al caldo. Questo passaggio lasciava impresso nella radiazione cosmica di fondo, se uno l’avesse osservata a quelle frequenze, proprio questo segnale, che è come una specie di pugnalata. Molto piccola, perché alla fine il segnale era molto piccolo, però era come se ci fosse una specie di tacca, impressa in questa radiazione: un’incisione che poi spariva subito. La tacca delle prime stelle».
Il segnale da cercare.
«Già. Questa cosa ci piacque moltissimo, abbiamo fatto questo grafico, poi il campo si è evoluto, le previsioni successive si sono basate su modelli molto più elaborati e complessi, ma essenzialmente la conclusione rimane quella: nella radiazione cosmica di fondo, se uno guarda lo spettro, si doveva intravedere questa “tacca” legata alle prime stelle. E la si doveva trovare ovunque nel cielo».
E infatti... Vi è toccato attendere una ventina d’anni, ma la mattina di giovedì 1 marzo 2018 quella tacca ve la siete ritrovata su Nature, nell’articolo di Judd Bowman e colleghi. «Proprio così. E l’avrebbero vista con uno strumento di una semplicità disarmante.
Se uno guarda una foto delle antenne di Edges, dicevamo scherzando fra colleghi, sembrano due tavolini da the messi su una griglia di metallo in mezzo al deserto. Ed effettivamente è più o meno così. Certo, dietro c’è l’enorme complessità richiesta nel trattare il segnale, analizzarlo, riceverlo e pulirlo dalle sorgenti astronomiche di foreground. Ma l'immagine che abbiamo è appunto di questi due tavolini messi in mezzo al deserto, ed è impressionante pensare che si sarebbero collegati con l'inizio dell'universo in questo modo. La cosa incredibile è che il segnale che hanno visto è molto più forte di quello che ci si aspettava.
Tant'è vero che altri scienziati hanno subito proposto, quasi in contemporanea, un altro articolo in cui interpretano questa differenza – il fatto che appaia molto più profonda di quanto atteso – come il segno di una nuova fisica». Una delle antenne Edges, grande quanto un frigorifero, con cui è stato possibile individuare le tracce delle stelle primordiali. Crediti: Csiro Australia In che senso una nuova fisica? «Per rendere così profonda la tacca, dicono, ci dev’essere qualcosa che raffredda ulteriormente questo gas, qualcosa che potrebbe essere addirittura la materia oscura interagente: una materia oscura che interagisce con la materia ordinaria. E questo chiaramente sarebbe un’altra materia oscura che interagisce con la materia ordinaria. E questo chiaramente sarebbe un’altra scoperta clamorosa, perché di materia oscura interagente, ovvero di particelle che potrebbero avere un livello d'interazione, è vero che se ne parla ma nessuno ne sa niente, nessuno ha una prova. E quindi la cosa che veramente ha del clamoroso è che potrebbero aver visto, con la stessa osservazione, sia le prime stelle sia una cosa fondamentale della natura della materia oscura. C’è infatti chi subito ha detto: questa è un’osservazione non da uno, bensì da due premi Nobel».
A proposito di Nobel: il premio per la fisica di solito va non tanto a chi ha visto ma chi ha previsto, com’è successo nel caso del bosone di Higgs.
E voi quella tacca l’avevate prevista già nel 2000… «Be’, in effetti, dovesse avanzarne uno, di premi… A parte gli scherzi, chiaramente quello che abbiamo scritto in quell'articolo – e il modo in cui lo abbiamo presentato, con quel grafico che faceva vedere la tacca – fu una buona idea. Certo, buona parte della fisica che ci sta dietro era già stata scritta dai miei collaboratori in un lavoro di tre anni prima (Madau, Meiksin e Rees 1997), ma con questo lavoro abbiamo “unito i puntini” per la prima volta».
Oggi lei è impegnato in un altro ambito dell’astrofisica. Nessun rimpianto a rileggere quelle righe di allora?
«Ma no, rimpianti no. Certo piacerebbe poter fare tutto nella vita, ma se dovessi fare l'elenco di tutte le cose che avrei potuto fare e non ho mai fatto, o non ho ancora fatto, non finirei più, come accade anche a tutti i miei colleghi. Questa è di certo una di quelle, ma al tempo stesso, razionalmente, mi rendo conto che poi uno, nella vita, riesce a fare le cose proprio perché prende delle decisioni. Se non si decidesse mai, non riuscirebbe a farne neanche una. Insomma, è andata così, ed è già divertente così: poter partecipare, parlare di questi aspetti con i colleghi… devo dire che lavorare in questo campo dell'astronomia è sempre affascinante».
Già che ci siamo: ora su cosa sta lavorando? Glielo chiedo per tentare di indovinare di cosa si parlerà tra una ventina d’anni, non si sa mai…
«Be’, no, effettivamente una previsione così visionaria era venuta fuori solo in quell’occasione. Gli articoli che ho scritto di recente non hanno nessuno slancio così visionario verso il futuro. Quello sì, aveva questo tratto.
E proprio perché c’era questo seme, è ora divertente ritornarci su, scrivere agli autori del nuovo studio, poterne discutere con loro, come ho avuto occasione di fare nei giorni scorsi».
E loro, che le hanno detto?
«Mi hanno chiesto cosa ne penso io, perché il segnale ha una forma diversa da quella che avevo previsto. Quasi quasi, anche se è da tempo che mi occupo d’altro, un paio di giorni glieli dedico volentieri: chissà mai che non mi venga in mente qualcosa».
Leggi su The Astrophysical Journal l'articolo del 2000 “Radio Signatures of H I at High Redshift: Mapping the End of the Dark Ages”, di Paolo Tozzi, Piero Madau, Avery Meiksin eMartin J. Rees 6 / 6
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La nostra galassia, la Via Lattea, perturbata dall'interazione mareale con una galassia nana, come previsto dalle simulazioni N-body.
Nell'immagine sono evidenti le posizioni delle stelle osservate, che si trovano sopra e sotto il disco, utilizzate per testare lo scenario perturbativo. Un team internazionale di astronomi guidati dal Max Planck Institute for Astronomy (Mpia) ha fatto una sorprendente scoperta sul luogo di origine di due gruppi di stelle che si trovano nell'alone della Via Lattea. Le stelle dell’alone oggetto di studio sono raggruppate in due strutture giganti che orbitano attorno al centro della Via Lattea, una sopra e l’altra sotto il disco della nostra galassia. I ricercatori inizialmente pensavano che la loro origine fosse riconducibile a detriti lasciati da galassie pipiccole che invasero la Via Lattea in un lontano passato.
Ma, da uno studio pubblicato questa settimana sulla rivista Nature, sembra che gli astronomi siano ora in possesso di prove convincenti che dimostrano come alcune di queste strutture dell’alone siano in realtà state espulse dal disco galattico. «Questo fenomeno è stato chiamato sfratto galattico», dice la coautrice Judy Cohen, Kate Van Nuys Page Professor di Astronomia al Caltech. «Le strutture sono spinte fuori dal piano della Via Lattea quando un'enorme galassia nana attraversa il disco galattico. Questo passaggio causa oscillazioni che espellono le stelle dal disco, sopra o sotto di esso a seconda della direzione che ha la massa in movimento responsabile della perturbazione». «Tali oscillazioni potrebbero essere paragonate alle onde sonore di uno strumento musicale», osserva la prima autrice della pubblicazione, Maria Bergemann di Mpia. «Questo "suono" nella Via Lattea viene chiamato sismologia galattica, fenomeno previsto dalla teoria decine di anni fa.
Ora abbiamo la prova evidente che queste oscillazioni nel disco della nostra galassia esistono realmente».
Vista dei telescopi gemelli dell'Osservatorio Keck, a Maunakea, nell'Isola delle Hawaii. Crediti: Wikimedia Commons Ma come ha fatto il team di ricercatori ad arrivare a questa conclusione? Per la prima volta, la squadra di Bergemann ha presentato modelli dettagliati delle abbondanze chimiche di queste stelle dell’alone, utilizzando il W. M. Keck Observatory, un osservatorio astronomico costituito da due telescopi riflettori gemelli, situati sulla sommità del vulcano Mauna Kea, nelle isole Hawaii. «L'analisi dell'abbondanza chimica è un test molto potente che consente, in un modo simile al confronto del Dna, di identificare la popolazione genitrice della stella. Diverse popolazioni genitrici, come quelle presenti nel disco o nell'alone della Via Lattea, nelle galassie satelliti nane o negli ammassi globulari, hanno composizioni chimiche profondamente diverse.
Quindi, sapendo di cosa sono fatte le stelle, possiamo immediatamente collegarle alle popolazioni stellari da cui si sono generate», spiega Bergemann.
Gli scienziati hanno studiato 14 stelle situate in due diverse strutture dell’alone: il Triangolo-Andromeda (Tri-E) e la regione A13. Queste due strutture si trovano sui lati opposti del disco della Via Lattea; circa 14.000 anni luce sopra e sotto il piano galattico. Il team ha ottenuto gli spettri delle stelle dell’alone usando lo spettrometro Hires (High-Resolution Echelle Spectrometer) del Keck Observatory.
«Il grande volume di dati e l'alta risoluzione spettrale di Hires sono stati fondamentali per il successo delle osservazioni delle stelle nella parte esterna della Via Lattea», aggiunge Cohen. «Un altro fattore chiave è stato il buon funzionamento dell'Osservatorio Keck: un buon puntamento e un funzionamento regolare consentono di ottenere spettri di molte stelle in poche notti di osservazione. In particolare, gli spettri presentati in questo studio sono stati ottenuti in una sola notte al Keck, e dimostrano quanto anche una sola notte possa essere preziosa».
Oltre alle osservazioni al Keck, il team ha ottenuto anche lo spettro di un’ulteriore stella preso con il Very Large Telescope (Eso, Vlt) in Cile.
Confrontando le composizioni chimiche di queste stelle con quelle trovate in altre strutture cosmiche, gli scienziati hanno scoperto, non senza sorpresa, che le composizioni chimiche sono pressoché identiche, sia all'interno di questi gruppi che fra loro, e sono molto simili a quelle delle stelle presenti nella parte esterna del disco della Via Lattea. Cifornisce prove convincenti che le stelle dell’alone molto probabilmente provengono dal sottile disco galattico (la parte pigiovane della Via Lattea, concentrata nel piano galattico). Questa scoperta è molto entusiasmante perché indica che il disco della Via Lattea e le sue dinamiche sono significativamente picomplesse di quanto si è sempre pensato in precedenza.
«Abbiamo dimostrato che potrebbe essere abbastanza comune, per gruppi di stelle nel disco, essere trasferiti in posizioni pidistanti all'interno della Via Lattea, in seguito allo sfratto da parte di unaanche in altre galassie, indica una potenziale universalità di questo processo dinamico», conclude la coautrice Allyson Sheffield del LaGuardia Community College. Come passo successivo, gli astronomi hanno in programma di analizzare gli spettri di ulteriori stelle nelle stesse zone (Tri-And e A13), così come quelli di stelle in altre strutture stellari pilontane dal disco. Inoltre, la loro intenzione è quella di determinare le masse e le età di queste stelle in modo da poter stabilire quando lo sfratto galattico abbia avuto luogo.
Per saperne di pi Leggi su Nature l'articolo "Two chemically similar stellar overdensities on opposite sides of the plane of the Galactic disk" di Maria Bergemann, Branimir Sesar, Judith G. Cohen, Aldo M. Serenelli, Allyson Sheffield, Ting S. Li, Luca Casagrande, Kathryn V. Johnston, Chervin F. P. Laporte, Adrian M. Price-Whelan, Ralph Schrich e Andrew Gould.
A cura di: Studio Spinapolice & Partners
In Italia l'opera era uscita nel 1981 nell'edizione Emme e nel 1999 per Babalibri, in entrambi i casi con la traduzione di Antonio Porta.
Trattandosi di albo illustrato, saremmo portati a incasellare il testo nella categoria di Letteratura per l'infanzia, ma Nel paese dei mostri selvaggi è un inno all'immaginazione e alla libertà che parla a tutti, adulti e bambini.
La potenza delle immagini e il sentire evocativo ci colpisce universalmente, nella nostra parte umana più preziosa. Un invito a stimolare il pensiero magico che scardina la logica quotidiana e rimodula la realtà. Non avremmo forse tutti bisogno a volte di scatenare, come Max, «il finimondo»?
Chiamiamo in causa C. S. Lewis -autore de Le cronache di Narnia-, con il suo saggio Tre modi di scrivere per l'infanzia:
Dobbiamo scrivere per i bambini con gli elementi dell’immaginazione che abbiamo in comune con loro [...] Dobbiamo rivolgerci ai bambini come a nostri pari, sfruttando quella parte della natura umana in cui siamo loro pari.
Se il racconto non è altro che la forma più idonea ad esprimere quello che l'autore ha da dire, allora i lettori interessati all'argomento vorranno leggerlo e rileggerlo a qualsiasi età. […] Sarei tentato di stabilire una regola in base alla quale una storia per bambini che piaccia solo ai bambini non sia un granché: quelle veramente affascinanti durano.
E questo avventuroso incontro con i "nostri mostri", che una volta affrontati faccia a faccia così cattivi poi non sono mai, è una storia veramente affascinante che, infatti, dura e riprende vita con la nuova traduzione di Lisa!
Confrontarsi con Porta non dovrebbe essere stato un gioco da ragazzi... ti sei sentita, concedimi l'espressione, un po' un nano sulle spalle dei giganti?
Sì. Mi sono sentita a lungo come un nano e mi ci sento ancora! È stata una decisione difficile accettare l’incarico della traduzione, sia perché si tratta di un classico, sia perché la precedente edizione italiana era fortemente connotata dalla figura di Antonio Porta. Non credo che lo stesso clamore avrebbe accompagnato l’uscita di una nuova traduzione in altre lingue. E questo ci dà la misura di quanto il poeta avesse impresso un segno personale sul testo di Sendak.
La maggior parte delle discussioni che hanno avuto luogo sui social network - non mi riferisco ovviamente alla critica - ruotano intorno alle due traduzioni italiane senza prendere in considerazione l’originale. La mia impressione è che molti lettori non professionisti inconsapevolmente identificavano il testo di Nel paese dei mostri selvaggi con la versione di Porta anziché con l’autore. È l’effetto prodigioso di una traduzione riuscita, di cui non si mette qui in discussione il merito.
Ma, davanti all’impresa di una nuova traduzione, ho deciso di confrontarmi solo con il testo di origine, nell’ottica di far emergere il più possibile il suo carattere. Non vorrei dare l’impressione che quanto detto sia stato deciso in maniera programmatica. Di formazione non appartengo al mondo degli albi illustrati perché ho seguito un percorso accademico in letteratura e la mia esperienza professionale, fino al 2014, si è concentrata unicamente sulla narrativa.
La fase di studio è stata molto più lunga di quella di traduzione e revisione. Non si tratta, dunque, di una posizione maturata precedentemente. Lavorando in dialogo con tutta l’opera di Sendak, ho pensato che le chiavi da adottare perché questo testo fosse vibrante e affilato in italiano, tanto quanto lo è in inglese, fossero il ritmo, la sintesi, e l’ellissi, per favorire l’integrazione con le immagini e quel fine enigma di cui Sendak è maestro.
Quali sono state le difficoltà più significative? Già la questione del titolo credo porti con sé diverse problematiche. Spesso il lavoro del traduttore passa ingiustamente nell'ombra, ma l'operazione culturale che si attiva è estremamente complessa e delicata, mettendo in gioco diverse competenze...
Non ci sono stati punti più critici di altri. Come dicevo sopra, penso che la risonanza vada percepita nella strategia globale. Un testo - e tanto più un testo così denso e breve - esercita il suo potere non solo nell’equilibrio delle doppie pagine ma nell’alchimia d’insieme. Tradurre un libro illustrato richiede, oltre a competenze testuali, la capacità di decifrare il linguaggio visivo e di capire in che modo questo si integra con la scrittura senza che i due si sovrappongano.
Per quanto riguarda il titolo, Where the wild things are ha sollevato dibattiti tra esperti di tutto il mondo, i quali concordano nel non trovare, tra le traduzioni esistenti, una soluzione ottimale - ne parlerò più a lungo nel numero della rivista Tradurre che uscirà a maggio. Grazie ad Anna Castagnoli, sono entrata in possesso degli atti del convegno internazionale su Maurice Sendak, tenutosi nel 2015 alla Bibliothèque nationale de France, che danno prova di una discussione ancora aperta e appassionante. Io trovo che, al netto delle discrepanze tra mostri e things, Nel paese dei mostri selvaggi sia un’ottima traduzione e che non ci sia motivo per non recuperare il prezioso contributo lasciato dal traduttore precedente.
A quanto so il libro è già in ristampa - i miei figli hanno ricevuto già una copia ciascuno... Qual è a tuo avviso la sua forza?
Credo di avere risposto, in parte, attraverso le altre domande. In questo albo c’è un’interazione completa tra testo e illustrazioni, tanto che l’uno non si può leggere senza l’altro e viceversa. L’architettura della struttura e del piano sequenza è incredibilmente sofisticata. La rete di richiami iconici e semantici crea dei soprasensi che agiscono in profondità nella lettura.
Tutte queste osservazioni porterebbero a credere che ci si trovi di fronte a un meccanismo oscuro e faticoso e, invece, la storia risplende per la sua folgorante chiarezza. Come ogni grande opera di letteratura, Nel paese dei mostri selvaggi si presta a multipli livelli di lettura e il suo mistero non finisce mai.
A cura di: Studio Spinapolice & Partners
Simulazione artistica della la luna ancora incandescente che esce dalla "synestia" terrestre.
Il processo di formazione di Terra e Luna è ancora oggi oggetto di costante dibattito. All’origine c’è sempre un impatto, su questo quasi nessuno pone seri dubbi. Negli ultimi vent’anni, la teoria piaccreditata vedeva la Luna come il risultato di un impatto tra la Terra e un corpo celeste della grandezza di Marte chiamato Theia. Impatto che provocla messa in orbita di roccia fusa e metallo che, scontrandosi ulteriormente, si riaggregarono a debita distanza dalla Terra, generando la Luna. Uno studio appena pubblicato – condotto dal ricercatore della Harvard University Simon Lock e dalla sua collega della UC Davis Sara Stewart – fornisce un’altra versione dei fatti che sembra risolvere alcuni problemi finora senza risposta.
Alla base di tutto: una synestia. L’evoluzione scientifica porta alla continua coniazione di neologismi. Talvolta intuitivi come “astrobiologia”, talaltra un po’ piostici, come quello in questione. Synestia dovrebbe essere il risultato dell’unione di due parole greche “syn” (con) e “hestia” che era una dea greca figlia di Crono e Rea legata al fuoco, il cui corrispettivo romano era Vesta. La synestia puessere definita come il frutto di una collisione planetaria tra due corpi che crea un’effimera nuvola di materia dalla rotazione vorticosa che, per si ricompatta velocemente. La cosa curiosa è che si tratta di una nuvola dalla forma particolare: il toro. Non stupitevi se non la conoscete.
Non tutti, infatti, sanno che il toro è anche una figura geometrica matematicamente abbastanza problematica conosciuta perlopida chi fa progettazione industriale o stampe 3d. Ma niente paura: si tratta solo di una ciambella. Un toro è infatti un anello rotondo analogo al copertone di una macchina così come ad un tipico donut americano (ricordate la passione di Homer, a parte la Duff?) o, ancora, al classico anello di fumo sbuffato dal ganzo di periferia per far colpo sulle ragazze. Quest’ultimo esempio, il cerchio di fumo, è forse quello che ci torna maggiormente utile per descrivere la nuova teoria sull’origine della luna. Se infatti un anello di fumo si dissipa in pochi secondi, la massa di cui è composto il grande anello teorizzato da Lock e Stuart è ben piconsistente.
Entrambi ruotano vorticosamente su se stessi, ma la synestia è composta da materiali rocciosi bollenti e vaporizzati che poi (a differenza del fumo di sigaretta) ricollassano velocemente per via della gravità. Così, da un piccolo “seme” iniziale, si formano nuove sfere da cui originano i pianeti e, nel nostro caso particolare, la Luna. In secondo luogo, lo studio vuole dimostrare che la Luna è letteralmente venuta fuori dalla synestia che stava formando la Terra. I test hanno infatti mostrato che l’impronta isotopica della Luna è praticamente identica a quella della Terra, e questo suggerisce che entrambe abbiano la stessa origine. Nel modello canonico, invece, la Luna si sarebbe formata in modo prevalente dalle risultanze di solo uno dei due corpi che si sono scontrati. Il meccanismo di nuova formazione prevede grandi piogge dovute al raffreddamento delle enormi masse di vapore che compongono la synestia. Tutto comincia con un “seme” – un piccolo ammasso di roccia liquida che si raduna verso il centro della ciambella. Mano a mano che la struttura si raffredda, la roccia vaporizzata si condensa e piove giverso il centro. Una parte di questa pioggia finisce sulla Luna, facendola crescere.
Secondo gli autori, a seguito di queste precipitazioni potentissime, pari a dieci volte i tornato terrestri, l’intera struttura si contrae e la Luna emerge dal vapore per uscire, infine, a far da satellite alla Terra con cui ha condiviso la nascita. Ma, come le similitudini tra Terra e Luna aggiungono dubbi alla teoria finora accettata, così fanno anche le loro differenze. I test hanno infatti mostrato che la Luna è molto meno abbondante di elementi volatili – come il potassio, il sodio e il rame – che sono invece relativamente comuni sulla Terra. In questo caso la soluzione potrebbe risiedere nel fatto che, nella nuova teoria, la Luna fosse circondata da decine di atmosfere di vapore acqueo ed una temperatura tra i 2 e i 3 mila gradi, temperature che hanno fatto dissipare la maggior parte di questi elementi che abbondavano nella nube originaria di Terra e Luna. Immancabile poi il riferimento degli autori alla necessità di tornare ad approfondire molti degli aspetti piproblematici di questo modello, come ad esempio il comportamento del vapore nel suo turbinare intorno alla Luna nascente. C’è da scommettere che il team americano tornerà spesso a pubblicare sull’argomento.
Per saperne di più Leggi su Journal of Geophysical Research: Planets l'articolo ”The origin of the Moon within a terrestrial synestia”, di Simon J. Lock, Sarah T. Stewart, Michail I. Petaev, Zoë M. Leinhardt, Mia T. Mace, Stein B. Jacobsen e Matija ?uk
A cura di: Studio Spinapolice & Partners
Ma niente bagni al chiaro di Luna: si tratta prevalentemente di ossidrili OH legati ad altre molecole.
Un nuovo studio statunitense, pubblicato in questi giorni su Nature Geoscience, ha riesaminato i dati ottenuti della sonda Nasa Lro, Lunar Reconaissance Orbiter, e da uno spettrometro Nasaa a bordo dell’orbiter lunare indiano Chandrayaan-1, per stimare nuovamente la presenza di acqua sul nostro satellite, trovandola ubiquamente incastonata su tutta la superficie. I risultati contraddicono alcuni studi precedenti, che avevano rilevato la presenza di una quantità maggiore di acqua alle latitudini polari della Luna e un andamento altalenante in base al giorno lunare, che dura 29.5 giorni terrestri.
«Abbiamo scoperto che, indipendentemente dall’ora del giorno o dalla latitudine che osserviamo, il segnale che indica acqua sembra essere sempre presente», sintetizza Joshua Bandfield dell'Istituto di scienza dello spazio a Boulder, in Colorado (Usa), primo autore della nuova ricerca. «Non sembra che la presenza di acqua dipenda dalla composizione della superficie, né che si muova da un punto a un altro».
Immagine composita della superficie lunare realizzata dal Moon Mineralogy Mapper della Nasa a bordo della sonda Isro Chandrayaan-1. Crediti: Isro/Nasa/JPL-Caltech/Brown Univ./Usgs L’incertezza riguardo alla presenza di acqua sulla Luna, nonché sulla sua origine, deriva principalmente dal modo in cui tale molecola viene rilevata: l’evidenza piforte ottenuta finora proviene dalla misura dell’intensità della luce riflessa dalla superficie lunare, all’interno della quale la presenza d’acqua è indicata da una specifica impronta spettrale nella banda infrarossa di radiazione. Ma la superficie lunare purisultare abbastanza calda da emettere luce propria, un bagliore nella regione infrarossa dello spettro.
Per i ricercatori, la sfida è esattamente quella di distinguere la luce riflessa da quella emessa, operazione per la quale è necessario avere informazioni molto accurate sulla temperatura. Grazie alle misure di temperatura della Luna ottenute dallo strumento Diviner Radiometer Experiment (water diviner = “rabdomante”) a bordo di Lro, gli autori del nuovo studio hanno elaborato un nuovo modello termico; modello che è stato quindi applicato ai dati raccolti dal Moon Mineralogy Mapper a bordo della sonda Chandrayaan-1, strumento che ha fornito la prima mappa mineralogica della superficie lunare e per primo individuato acqua ghiacciata ai poli.
Luna rotante ricostruita dai dati di Lro. Crediti: Lro, Arizona State U., Nasa Gli autori del nuovo studio ritengono che l’acqua sulla Luna sia principalmente presente come gruppi ossidrilici OH legati ad altre molecole per comporre gli idrati e idrossidi che costituiscono il suolo lunare.
Riguardo all’origine dell’acqua lunare, i ricercatori ritengono che le molecole di OH e/o di H2O siano state con piprobabilità create dal vento solare che spazza la superficie lunare, anche se non possono scartare l’ipotesi che provengano dall’interno stesso della Luna, lentamente rilasciate da minerali in cui erano presenti fin dall’epoca in cui il corpo selenitico si è formato.
Per saperne di più Leggi su:
Nature Geoscience “Widespread distribution of OH/H2O on the lunar surface inferred from spectral data”, di Joshua L. Bandfield, Michael J. Poston, Rachel L. Klima & Christopher S. Edwards.
a cura di Stefano Parini
A cura di: Studio Spinapolice & Partners
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