ANNO XII - &MAGAZINE - 

Dalla casa nella pineta, alla stagione del terrorismo.

Se vediamo alcuni titoli di Pietro Ichino, da “Il lavoro e il mercato” a “Il lavoro ritrovato”, da “A che cosa serve il sindacato” a “I nullafacenti” o, sempre nelle vesti del giuslavorista che conosciamo, all’ultimo suo titolo “Il lavoro ritrovato”, restiamo sorpresi della finezza letteraria che traspare in un suo nuovo libro appena uscito per i tipi di Giunti “La casa nella pineta” dall’indicativo sottotitolo “Storia di una famiglia borghese del Novecento”.

In esso il giuslavorista dà fondo alla sua memoria e a quella recepita dalle persone che ha amato per raccontarci, non senza struggimento nella “voce”, la storia della sua famiglia che ha, su per li rami, legami illustri, a cominciare dai bisnonni Pellegrino Pontecorvo, nonno dello scienziato Bruno e del regista Gillo, e Giuditta Tagliacozzo, tra i cui discendenti non mancheranno grandi personaggi come, uno tra tutti, Eugenio Colorni, uno dei firmatari a Ventotene, con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi del famoso “Manifesto per un’Europa libera e unita”.

Sapiente il lavoro di Ichino su questo complesso intreccio famigliare che poi, strada facendo, si restringe al ramo proprio che vede i nonni Carlo e Paola Pellizzi e, quindi, i propri genitori, immersi in un interno/esterno famigliare attraverso il quale abbiamo uno spaccato di quella che era la vita, indubbiamente privilegiata, di una famiglia della buona borghesia milanese, che trova però, nel racconto, un epicentro nella villa che i Pellizzi avevano, e tuttora gli Ichino hanno, in Versilia. Una villa, Villa Amelia, nella pineta, sulla spiaggia con tanto di concessione del demanio, spiaggia che poi, nel mutare delle condizioni amministrative, sarebbe diventata pubblica. Ma, intanto, gli anni di concessione sono stati abbastanza lunghi perché la famiglia potesse goderne e, così, anche il piccolo Pietro e i tre fratelli, che ci regala teneri e divertenti ritratti e aneddoti, così ricchi di pathos, educazione e umanità che fa rimpiangere, nel lettore stesso, la fine di quel mondo, che è anche la fine di una civiltà: quella in cui i privilegi erano sempre vissuti e goduti senza esibizione, con sobrietà, nel rispetto altrui, per altro ricambiato,  e sottoposto a regole che oggi si sono perse in nome di un egualitarismo cafone, spesso violento, prevaricatore, sicuramente malinteso nell’ambito di quelli che sono gli ideali di libertà e uguaglianza. Dal libro di Ichino, in questo senso, verrebbe voglia di estrarre un decalogo di comportamento, del quale era severa osservante la nonna Paola. “La nonna” scrive Ichino “aveva una sua particolarissima attenzione al valore della parsimonia e della sobrietà, non solo come dovere etico ma anche come forma di eleganza esteriore”.

I genitori non sarebbero stati diversi. Il padre Luciano, che avrebbe sposato la figlia dei Pellizzi, Francesca, apparteneva allo stesso genere di famiglia, con tradizione di avvocati, studio a Milano, al quale Pietro doveva essere destinato se un richiamo di carattere sociale, nato in particolare dalla frequentazione di don Milani, spesso ospite, con alcuni dei suoi ragazzi di Barbiana, nella loro casa, non gli avesse in parte deviato il percorso. Il cristianesimo era il tratto distintivo della famiglia sul quale Pietro avrebbe costruito quella sensibilità sociale che lo avrebbe condotto a lavorare sul territorio milanese per la CGIL e a soli 29 anni fatto diventare deputato del Partito Comunista. Un’esperienza, quest’ultima, che si sarebbe rivelata molto importante soprattutto per spezzare, non senza forti contrasti e, comunque, anche importanti apprezzamenti – a cominciare da quelli di Napolitano e di Chiaromonte – con una dirigenza legata a vecchi schemi sindacali e contrattuali che cozzavano con quanto stava avvenendo nel mondo del lavoro, in Italia e nel resto d’Europa. Ichino, allievo del padre del diritto del lavoro Giuseppe Pera, ci porta poi dritto nella triste e tragica stagione del terrorismo, che sarebbe arrivata alla follia, priva di qualsiasi giustificazione in termini di rispetto per la vita umana e per la dialettica politica, di uccidere tra i migliori giuslavoristi italiani, Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, costringendo a vivere Ichino stesso, in seguito a reiterate minacce, sotto scorta della polizia.

Parallelamente il racconto non trascura i passaggi famigliari che accompagneranno la sua vita, il matrimonio, la nascita dei figli, le morti dei nonni, poi del padre e infine della madre. Ichino lo fa con una delicatezza non esente anche da confessioni coraggiose che gli fanno onore per gli aspetti intimi non trascurati e che, nell’insieme, danno il senso di una vita ben spesa. Per sé e per gli altri.

 

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Esodo e pazzia

Lasciare, sapendo che sarà per sempre, la propria casa, magari quella a vita, lasciare il proprio pezzo di terra, il paese dove si è sempre vissuto, gli amici, i parenti, lasciare le tombe dei propri defunti, non è facile.

Lo è ancora meno se questo abbandono è frutto della paura, delle vessazioni, degli espropri imposti da un regime come quello titino che a dispetto dello slogan “Morte al fascismo, libertà ai popoli” che voleva caratterizzare il movimento da cui quel regime era nato, si è rivelato alla prova dei fatti non come liberatore, bensì, né più né meno, come una forza di occupazione.

E’ quanto hanno provato sulla propria pelle i 300 mila profughi istriani, fiumani e dalmati che dal 1945 a tutti gli anni Sessanta hanno subito questa sorte. Inevitabili i contraccolpi sulla psiche di molti di essi, con la conseguenza di vedersi costretti al ricovero in manicomio. La struttura che, in questo senso, ha visto transitare più esuli è stato l’ospedale psichiatrico “San Giovanni” di Trieste, per molti anni guidato da Franco Basaglia e nel cui archivio sono raccolti nomi e cartelle cliniche che, oggi, grazie alla messa a disposizione di Giuseppe Dell’Acqua, già direttore del Dipartimento di salute mentale dell’ospedale, sono diventate oggetto di studio da parte della storica Gloria Nemec. Il risultato è un libro di grande interesse umano e sociale dal titolo “Dopo venuti a Trieste” con l’indicativo sottotitolo “Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine 1945-1970”, pubblicato dalle Edizioni Alphabeta Verlag e uscito in una collana diretta dallo stesso Giuseppe Dell’Acqua, grazie anche alla sponsorizzazione del benemerito “Circolo di cultura istro-veneta Istria” presieduto da Livio Dorigo.

Il libro, per le storie drammatiche che racconta, per le tante esistenze ferite dall’esperienza dell’esilio, per i percorsi che, di fronte alla malattia, hanno portato molte famiglie alla disgregazione ulteriore, risulta particolarmente interessante e ricco di spunti di riflessione che il taglio storico dato dall’autrice aiuta a sviluppare (Gloria Nemec è docente e ricercatrice di Storia sociale). Perché non c’è solo il trauma dell’esilio che concorre alla malattia. C’è anche quello della vita durissima nel campo profughi, nel caso specifico di quelli triestini: la risiera di San Sabba, di infausta quanto allora di recentissima memoria per essere stato l’unico lager su territorio italiano ad essere utilizzato dai nazifascisti come forno crematorio per un gran numero di prigionieri politici ed ebrei; il Silos del porto; il campo di Opicina e quello di Padriciano. E c’è, naturalmente, il fardello doloroso che gli esuli si portano dietro. Scrive la Nemec: “In questi primi anni dopo il conflitto erano ancora ben leggibili i freschi traumi riportati nel passaggio attraverso tempi di guerra e territori contesi. Le anamnesi, sovente ricostruite attraverso le testimonianze dei congiunti, davano forma a storie di vita di donne gravate da lutti, terrori e sentimenti di colpevolezza. Alcune avevano vissuto scontri armati nella loro abitazione, rastrellamenti casa per casa, scomparse inspiegabili e incomprensibili di parenti. Generalizzata appariva la condizione del lutto, segnata anche da un perdurante dialogo con i morti – modalità femminile allora ‘normalmente’ diffusa di elaborazione – diverse sofferenze si esprimevano con il ‘sentire voci’, talvolta con deliri a sfondo religioso o di tipo demonopatico.”

Era più o meno una condizione generale dei ricoverati, in particolare donne che, a parte i deliri e le irrequitezze, si rifiutavano di bere e mangiare per paura di essere avvelenate, opponevano “cieca resistenza” all’esame somatico, così come alle “terapie convulsanti per timore di essere uccise”.

E interessante anche notare quanto contraddittorio fosse il sogno socialista per cui molti avevano combattuto e la realtà fatta di espropri e persecuzioni, di esistenze piegate a condizionamenti, obblighi, punizioni, che, al contrario di quelle metafisiche legate, secondo la propria credenza, al fato o a Dio, discendevano direttamente dalla volontà unilaterale, oligarchica, dittatoriale, di alcuni uomini legati a un partito e per niente affatto quella democratica e popolare dei principi falsamente e ipocritamente ispiratori. Tant’è che, non proprio paradossalmente, la stagione egli arrivi di massa si concretizzò negli anni Cinquanta da parte degli abitanti della zona B, posta sotto il controllo jugoslavo. Gente che ormai aveva vissuto quasi dieci anni sotto il tallone del socialismo reale. A tale riguardo, per restare nel campo degli esuli ricoverati:  “L’osservazione medica nei campi profughi aveva modo di riscontrare che lo stato di salute degli ultimi era peggiore di quello di chi era giunto da qualche tempo. Nei collegi e ricoveri per minori approdavano dall’Istria bambini (notoriamente pericolosi antirivoluzionari e fascisti della prima ora, n.d.r),  gracili, invasi da parassiti, in condizioni pietosissime. Nel Silos, nei centri di raccolta sull’altipiano carsico (Padriciano, Villa Opicina, Prosecco), nei campi profughi cittadini di Campo Marzio e San Sabba, era possibile tenere l’emergenza sanitaria sotto controllo, se si attuava l’allontanamento dei bambini, dei tubercolosi e predisposti, degli anziani in gravi condizioni, degli instabili di mente.”

 

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L'editoria italiana nel novecento.

Immaginate un uomo che, a parte un romanzo, per altro incompiuto, scritti sparsi, molte lettere e poco altro, non abbia scritto né mai pubblicato nulla, ma la cui personalità e influenza sia stata determinante nella formazione della cultura italiana del Novecento.

Ebbene, questi era Bobi Bazlen. A raccontare il suo itinerario umano e professionale è la giornalista Cristina Battocletti, vice responsabile della “Domenica” del “Sole 24 Ore”, in un libro interessante quanto appassionato e appassionante “Bobi Bazlen, l’anima di Trieste”, edito da La Nave di Teseo.

Il migliore, sul piano saggistico, daI punto di vista del racconto, di quanti libri – per quanto pochi -  sono stati scritti su di lui. Perché l’autrice ne fa un ritratto a tutto tondo pescando nei documenti fino a noi pervenuti e nelle testimonianze di chi lo ha conosciuto. Lo fa, peraltro, con quella marcia in più che le dà il fatto di essere prossima, geograficamente e culturalmente, a Trieste per essere nata a Udine. Il che non è secondario per entrare in certi dettagli, anche se la figura di Bazlen, il suo personaggio, non può non suscitare la curiosità di chiunque si muova nel campo delle lettere e della editoria.

Il suo merito, quello di aver fatto conoscere e tradurre autori e titoli fondamentali, sconosciuti ai più in Italia fino al suo intervento. E parliamo di Sigmund Freud, Franz Kafka, Robert Musil, Carl Gustav Jung e tanti altri, alcuni tradotti da egli stesso. Non solo, un uomo anche al quale si deve l’ideazione e la partecipazione alla fondazione di alcune case editrici tuttora più che attive come la Ubaldini, nel campo della psicanalisi e delle religioni orientali alle quali Bazlen era particolarmente interessato, e soprattutto l’Adelphi, che lo vede compagno fin dai primi passi di Luciano Foà, imbarcando nell’avventura un giovanissimo Roberto Calasso. Né è da trascurare la collaborazione che per anni ebbe con la casa editrice Einaudi.

Ma questo è un po’, se vogliamo, il suo profilo esterno. Entrare invece nelle pieghe della sua vita, della sua anima, è un’altra cosa, basata com’è su dettagli anche minimi che Cristina Battocletti ha saputo cogliere e raccontare. Così da farci entrare nei suoi rapporti famigliari e sentimentali (uno su tutti quello con Ljuba) e quindi con le tante personalità che Bobi Bazlen ha frequentato anche intimamente come Umberto Saba e sua figlia Linuccia, del quale è stato anche fidanzato, di Svevo, che Bazlen ha contribuito a far conoscere parlandone a Montale che poi ne ha scritto togliendolo dall’anonimato, del suo grande amico Quarantotti Gambini e Giacomo Debenedetti, Adriano Olivetti, Giani Stuparich, senza trascurare l’importante amicizia e scoperta di Stelio Mattioni, con il quale fu in contatto negli ultimi quattro anni di vita.

Ma, oltre ad essi, anche con i grandi pionieri della psicanalisi in Italia come Edoardo Weiss ed Ernst Bernhard e quindi Cesare Musatti. Cristina Battocletti segue il suo personaggio lungo i luoghi, le case, le persone che ha frequentato, attraverso un racconto avvincente, tanto leggero nella scrittura (si legge d’un fiato a dispetto delle quasi 400 pagine) quanto intenso e profondo e narrativamente sagace, da restituire al lettore un personaggio a tutto tondo, che ben si accosta, seppur con intenti diversi, a quello che Daniele Del Giudice ricercò – proprio sulle orme di Bobi Bazlen – nel suo romanzo “Lo stadio di Wimbledon”.

Il libro ha per sottotitolo “L’ombra di Trieste” che ha in sé un duplice significato. Il primo riguarda il fatto che Bobi Bazlen è nato a Trieste, nel 1902, da padre tedesco di religione luterana, che perse giovanissimo, e da madre triestina di religione ebrea. A Trieste è cresciuto, respirando l’atmosfera della città, porto principale dell’Impero austroungarico al quale allora apparteneva: un crocevia di razze, religioni e lingue, le quali ultime Bazlen prese a parlare e leggere con la stessa dimestichezza dell’italiano, se non meglio, almeno, il tedesco.

Deve anche a questo, oltre all’amore per la lettura e i libri, le sue straordinarie scoperte prima di chiunque altro in Italia. Il secondo significato di quel sottotitolo consiste invece nel fatto che, fuggito dal capoluogo giuliano quasi per disintossicarsi, lui figlio unico e orfano di padre, dalle pressanti attenzioni della madre e anche dall’asfissia di un certo ambiente, mai più vi fece ritorno – se non in incognito per due giorni – seppur sempre con la mente e il cuore rivolto lì.

Cristina Battocletti, Bobi Bazlen- L’ombra di Trieste, La nave di Teseo

 

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Una super Terra con un super nucleo

Francesca Faedi e Aldo Bonomo, ricercatori dell'Inaf, hanno partecipato alla caratterizzazione di K2-229b, un esopianeta che assomiglia per dimensioni alla Terra, ma è molto più massiccio.

Tanto da essere avvicinato, per la sua possibile composizione interna, al nostro Mercurio. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy. 

Come dimensioni è simile alla nostra Terra, ma la sua massa di 2,6 volte più grande suggerisce che la sua struttura sia composta da un nucleo ferroso molto più grande, rendendolo in questo aspetto decisamente simile al pianeta Mercurio. Il suo nome è K2-229b: l’esopianeta è stato caratterizzato da un team di ricercatori guidato da Alexandre Santerne (Laboratorio di Astrofisica di Marsiglia, LAM) e del quale fanno parte Francesca Faedi e Aldo Bonomo, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), grazie alle osservazioni combinate della missione spaziale Kepler-2 della Nasa e dello spettrografo Harps installato al telescopio da 3,6 metri dell’ESO a La Silla, in Cile. Un pianeta insolito per la sua composizione dunque, ma anche per il periodo orbitale brevissimo - tanto che il suo anno dura meno di un giorno - e la sua temperatura superficiale rovente, di poco superiore ai duemila gradi Celsius. Lo studio di K2-229b può aiutarci a capire la formazione e l’evoluzione dei pianeti rocciosi, non solo nel Sistema solare, ma anche in altri luoghi dell’universo.

«K2-229b è il primo pianeta ad essere scoperto con dimensione della Terra ma composizione interna simile a quella di Mercurio» ribadisce Bonomo, dell’Inaf di Torino, coautore dell’articolo pubblicato su Nature Astronomy che descrive la scoperta. «È inoltre la prima volta che è stata evidenziata una differenza significativa fra la composizione chimica del pianeta e quella della sua stella e da quest'ultima ci saremmo aspettati una struttura interna del pianeta diversa, analoga a quella della Terra. Non riusciamo al momento a capire bene quale processo abbia portato K2-229b ad avere una composizione simile a Mercurio, sebbene diverse ipotesi siano state avanzate per spiegarla».

La stella K2-229 è stata osservata tra luglio e settembre del 2016 dal telescopio spaziale Kepler che ha permesso di individuare un sistema con tre pianeti, di cui K2-229b è il più interno e possiede un raggio di 1,16 volte quello della Terra. Le misure di velocità radiale di questa stella condotte con Harps hanno infine permesso di determinarne la massa.

Questi due dati, combinati insieme, hanno consentito agli scienziati di dare una stima di quella che potrebbe essere la struttura di K2-229b: la più verosimile prevede un nucleo ferroso molto grande, che conterebbe circa il 70 per cento della massa planetaria, e un mantello di silicati relativamente sottile. Una struttura molto simile a quella di Mercurio, il pianeta più interno del nostro Sistema solare.

L'ipotesi più probabile avanzata dagli scienziati per spiegare la struttura di K2-229b è che gli strati esterni del pianeta siano stati strappati via da un impatto gigantesco, in analogia a quanto si ritiene sia avvenuto alcuni miliardi di anni fa per Mercurio. In alternativa a questo possibile scenario, la struttura interna di K2-229b si potrebbe spiegare ipotizzando la sua formazione in una zona interna del disco protoplanetario con una bassa concentrazione di silicati oppure con l'evaporazione del suo mantello di silicati prodotta dal forte irraggiamento da parte della stella dovuto alla estrema vicinanza del pianeta.

«Con il lancio della missione Plato dell’Esa, previsto nel 2024, avremo finalmente la possibilità di studiare in dettaglio pianeti come K2-229b che orbitano attorno a stelle brillanti di diversa  massa e composizione chimica» commenta Francesca Faedi, dell’Inaf di Catania, anche lei coautrice dell’articolo su Nature Astronomy. «Grazie a queste osservazioni capiremo meglio i meccanismi di formazione e migrazione planetarie collocando il nostro Sistema solare in un più ampio contesto globale. Plato osserverà stelle molto brillanti garantendo la possibilità di condurre investigazioni dettagliate anche sull’atmosfera e la composizione interna di questi pianeti con lo scopo di identificare un possibile pianeta abitabile analogo della Terra».

Aldo Bonomo e Francesca Faedi collaborano al programma italiano GAPS (Global Architecture of Planetary Systems) che studia in dettaglio i pianeti extrasolari sfruttando le capacità uniche dello spettrografo HARPS-N montato al Telescopio Nazionale Galileo dell’INAF alle Isole Canarie (Spagna) e alla preparazione scientifica della missione PLATO dell’Agenzia Spaziale Europea, dedicata alla ricerca di esopianeti, finanziata in Italia dall’Agenzia Spaziale Italiana.

Author :Redazione Media Inaf

 

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Quando il sesso si accompagna alla menzogna.

La società araba è apparentemente sessuofoba, con gli uomini pronti a giudicare negativamente anche le più innocenti libertà delle donne, quegli stessi uomini che poi, nel loro privato risultano essere ossessionati dal sesso, malati, se solo si pensa che risultano essere i maggiori consumatori di siti pornografici.

Questa mentalità e il mondo che riproduce emerge con grande forza nel libro, edito da Rizzoli, “I racconti del sesso e della menzogna” della giovane scrittrice marocchina Leila Slimani, vincitrice nel 2016 dell’importante premio Goncourt con il romanzo “Ninna Nanna”.

Il titolo può apparire fuorviante. Lascia, infatti, pensare a una raccolta di racconti letterari, di pura narrativa, mentre invece sono i racconti degli incontri che la scrittrice ha avuto con diverse donne marocchine in occasione delle varie presentazioni del suo romanzo d’esordio “Nel giardino dell’orco”, un romanzo coraggioso che racconta la storia di Adele, una donna che descrive i suoi rapporti sessuali in maniera fredda, anaffettiva, malata, se volete, che si muove in un mondo ipocrita dove la donna è sottomessa alle “esigenze” degli uomini. Tanto da dimenticare sé stessa. Pur nella analitica descrizione dei coiti non c’è nulla di erotico. Un romanzo d’esordio che fece scalpore.

Ebbene, proprio i temi trattati da Leila Slimani in quel romanzo, hanno dato il coraggio a molte giovani donne arabe e marocchine in particolare di trovare nella scrittrice qualcuno a cui confessare, sapendo di trovare comprensione, la propria condizione sessuale, ciascuna portatrice di esperienze traumatiche che hanno condizionato e continuano a condizionare la loro vita. Qui la penna della scrittrice si trasforma in quella della giornalista, ché tale anche è Leila Slimani, che dà agli incontri il taglio del report partendo dai diversi dati personali. Le donne sono per età e professione le più diverse: la studentessa, la prostituta, la dottoressa, l’attivista politica, una poliziotta e così via attraverso la cui voce passa uno spaccato sicuramente del rapporto uomo donna nei paesi arabi, ma in cui anche noi italiani di entrambi i sessi ci possiamo riconoscere. Anzi, forse la loro realtà può servire da cartina di tornasole della nostra dove ci crediamo più moderni e disinibiti, ma che ogni giorno viene sconfessata da fatti di cronaca o testimonianze personali e dirette da parte di ciascuno di noi, in famiglia, sul posto di lavoro, nei social.

Ho detto taglio giornalistico o d’inchiesta del libro, ma sarebbe limitante fermarsi a questa definizione. Da questi racconti infatti c’è un forte dato emotivo che emerge e che dà ad essi una loro peculiarità, una intensità attraverso la quale traspare tutta la sofferenza della donna, di quelle che si sono presentate a Leila per fare della loro confessione anche un segno di protesta. Ma vi traspare anche la sofferenza della scrittrice stessa la quale sottolinea nella prefazione che, tra le tante, per la sua galleria ha scelto quelle le cui storie “Mi hanno sconvolto, commosso, che mi hanno infastidito e a volte indignato”.

Il risultato è un libro carico di pathos, che è rimasto tale mai venendo meno a informazioni sul mondo, la vita, le leggi arabe, con incursioni nella letteratura, citazioni di altre scrittrici che hanno affrontato l’argomento, l’esempio di altre donne, oltre che del proprio, in particolare i conflitti ad esempio di Leila col padre e per la cieca sudditanza della madre ad assurdi diktat gabbati di ordine morale o religioso o semplicemente sociale. Leila racconta la sua impossibilità, con la scelta della propria indipendenza dalla famiglia, di trovare un appartamento in affitto come single e altri aspetti di vita quotidiana, il tutto attraverso una scrittura rapida, efficace, essenziale che, mescolandosi al racconto delle donne, danno il succo a ogni incontro. Sesso clandestino, rubato, consumato in posti talvolta squallidi e abbandonati se solo fidanzati, che non si possono neppure baciare in pubblico; condanne a due anni di carcere soltanto per aver fatto sesso fuori dal matrimonio; stupri in famiglia e non con divieto di abortire anche se rimaste incinte;  obbligo di illibatezza prima del matrimonio; il ricorso a soluzioni alternative; omosessualità perseguitata; i rimedi della masturbazione; la libertà celata delle confidenze tra donne anche con l’uso tra loro, nascosto, di un linguaggio crudo per reazione; e, insieme, ancora tanti altri aspetti così intimi e delicati che danno senso a quella parola del titolo, menzogna, che circonda certo i rapporti sessuali nel mondo arabo, ma anche il nostro.

 

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