A cura di: Studio Spinapolice & Partners
La parola arcipelago ha a che fare con l’Egeo, dal greco Aigaion Pelagos, storpiato poi dai veneziani, insediatisi nell’Egeo dopo il 1204, in Archipelago. Un mare, l’Egeo, sul quale s’incontrano migliaia di isole di varia grandezza di cui oltre duecento abitate.
Un viaggio straordinario tra di esse, tra le maggiori e le più rappresentative, lo compie per tutti noi Giorgio Ieranò, docente di letteratura greca all’Università di Trento con il suo libro “Arcipelago – isole e miti del Mar Egeo”, edito da Einaudi. Viaggio straordinario perché attraversa i secoli, visita le isole nei tempi e nello spazio che hanno dato vita ai tanti miti arrivati fino a noi e, poi, eventi che toccano la storia dalle epoche passate (veneziani, cavalieri gerosolimitani, ottomani, italiani, tedeschi, inglesi, greci) e più recenti, fino ai nostri giorni se serve a completare il racconto che le descrive. E lo fa con una scrittura capace di coniugare grande erudizione e lievità stilistica, passione ed emozioni, colori, sapori, storie, il tutto con una naturalezza narrativa da rendere questo libro in qualche modo unico nel suo genere.
Emergono isole che oggi per lo più sono meta di turisti e, alcune, pretesto di volgare movida, un divertimento cieco sul suolo che si calpesta, così ricco della sua millenaria storia come, ad esempio Santorini, della quale Ieranò coglie la tradizione vampiresca, sinistra, forse dovuta al suo “paesaggio irreale, impressionante, sulfureo. Santorini è un teatro naturale, un palcoscenico vertiginoso di rupi scoscese e di case a strapiombo affacciate su un golfo cupo, dalle acque profonde… Santorini deve la sua forma a mezzaluna proprio all’implosione del cratere vulcanico su cui giace”. Implosione che, a sua volta, ha dato luogo a tante leggende e miti, che la massa dei turisti che l’affollano del tutto colpevolmente ignora.
Ma, per fortuna, ci sono anche isole sulle quali, visitandole, miti e leggende ancora si respirano. Sempre nelle Cicladi isole come Serifos o Paros, quest’ultima, negli ultimi decenni, molto amata dai poeti irlandesi. “Desmond O’ Grady, per esempio, arrivò a Naoussa nel 1966, pochi anni dopo avere appunto recitato il ruolo fortemente autobiografico di un poeta irlandese ne La dolce vita di Federico fellini. Per O’Grady, morto nel 2014, Paros era ‘una epifania’, ‘l’isola delle isole’. Sulla sua scia si sono mossi i compatrioti Derek Mahon e il Premio Nobel Seamus Heaney. Qualche divo di Hollywood è invece approdato nella vicina Antiparos, isoletta oggi assai à la page.”
Lo stimolante viaggio nelle Cicladi prosegue a Delo, Naxos, Milos, Syros, che l’autore ci presenta nella loro luminosa dimensione naturale per la luce che le attraversa tra mare e cielo, palcoscici di altre storie, per poi spostarsi a Creta, la madre degli dei, come recita il titolo del capitolo. Un’occasione per immergerci nel mito di Giove, Efesto, del labirinto, di Minosse, del Minotauro, Teseo, Arianna, Dedalo, Icaro. Il libro offre momenti di rilettura di storie e personaggi di cui ci sono rimasti lontani echi scolastici, da opere come le Argonautiche di Apollonio Rodio o del mitografo Apollodoro con la sua Biblioteca. E di Omero. Ieranò cita Charles Delattre: “In Omero, Creta non è una semplice isola (nesos) ma una vasta contrada (gaia), una terra che ‘si estende da lontano’, una base solida e ferma dove risiedono fino a cinque popoli differenti. La sua posizione, ‘lontana al di là del mare’, ne fa quasi un analogo di quelle contrade misteriose che sono i paesi degli Iperborei e dei Cimmeri”. Il capitolo è ampio, e arriva fino alla occupazione tedesca, senza trascurare le scoperte dell’archeologo avventuriero Arthur Evans, al quale va il merito del ritrovamento del palazzo di Minosse. Ma prima ancora la conquista dell’isola da parte dei veneziani. Quanta storia in quel mare!
Da ultime le isole del Dodecaneso: Rodi, Kos, Samo, Lesbo, Lemno. Unico appunto, il relativo poco spazio dedicato a Kos, un’isola che da Ippocrate, 460 a.C. in poi ha conosciuto varie vicissitudini, tra occupazioni le più diverse e terremoti, fino all’amministrazione italiana con i segni tangibili dell’architettura razionalista con la quale il capoluogo dell’isola è stato ricostruito dopo il terremoto del 1933. Ogni pietra di Kos parla del suo passato, senza nascondere nulla. Forse come nessuna isola dell’Egeo espone tremila anni di storia tutti visibili. Ma i turisti, distratti dalla movida di questi ultimi anni (fino a tutti gli anni Ottanta l’isola era rimasta estranea alle masse) sembrano non accorgersene.
Questo libro di Ieranò è più di un invito a guardare l’arcipelago intero con altri occhi. E, soprattutto, altra testa.
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I resti imponenti dell’antico palazzo Ak-saray, voluto da Amir Temur il Tamerlano, lasciano intuire le dimensioni ciclopiche della costruzione, che doveva avere un portale dell’altezza di 50 metri e le torri minareto dalla base diagonale.
Una costruzione che nel suo insieme durò vent’anni, a partire dal 1380 e per la quale furono convocati i maggiori artigiani locali così come i maestri della Korazmia e dei Paesi caduti sotto il dominio di colui che è oggi un eroe nazionale.
Terminata la visita di Shakhrisabz, con la Moschea di Kok-Gumbaz e Dorut Tilyovat e il complesso dell’imam Khazrati, riprendiamo la strada per Samarcanda domandandoci se qualcosa potrà ancora stupirci dopo tutto ciò che abbiamo visto fin qui.
Descrivere l’emozione di trovarsi in questa antica e splendida città “dalle cupole blu” è praticamente impossibile. Il Registan, il Gour-e-amir, la moschea Bibi Kanhoum, il cimitero Afraisab…non staremo qui a descrivere i tanti monumenti, mausolei, madrasse e moschee grazie ai quali Samarcanda è stata inserita a pieno titolo nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO; per questo ci sono le guide turistiche. Ciò che invece ci pare importante riportare è che, nonostante una certa atmosfera di turismo di massa, basta camminare per i vicoli secondari per ritrovare l’autenticità dei luoghi e soprattutto delle persone, sempre accoglienti, colorate e sorridenti, come abbiamo incontrato finora. Emozionante una passeggiata la sera, per gustare la magia dei monumenti illuminati.
Concluderemo il nostro viaggio a Tashkent, città sorprendentemente moderna, ma dal cuore antico, dove i grattaceli sfiorano lo stesso cielo dei minareti storici.
Ovunque, da Khiva in poi, denominatore comune è l’Islam e i suoi simboli: le bellissime moschee e gli arditi e piastrellati minareti, così come le madrase, cioè le scuole coraniche, come i diversi mausolei, questi e quelle tutti artisticamente lavorati, ispirati a una concezione architettonica grandiosa che utilizza mattoni, marmi, smalti, legni sempre minutamente lavorati con i tipici disegni geometrici, le mistiche svastiche -la cui idea fu poi fatta propria dai nazisti- le scritte dorate in arabo ispirate al Corano, le colonne gigantesche che talvolta suggeriscono, nella loro disposizione, fughe nello spazio in giochi di prospettiva, cupole smaltate, per lo più lisce, ma anche finemente sbalzate che si profilano suggestive verso il cielo. La loro fitta presenza in uno spazio così raccolto come quello di Khiva, ma anche in quelli delle maestose piazze di Bukhara, Shakhrisabz, Samarcanda e Tashkent, ci narrano di un paese antico e devoto, ma assolutamente non chiuso nella sua confessione. Allo straniero che arriva non si impedisce di visitare moschee, minareti, madrase e mausolei, con l’unica accortezza di togliersi le scarpe prima di accedervi. Il pensiero, per contrasto, corre all’immagine di un altro Islam che, con la sua violenza, le sue distruzioni, il tanto sangue innocente versato, il suo fanatismo e la sua follia disumana, sembra contraddire tanta bellezza. Qui no. In Uzbekistan l’Islam si apre al viaggiatore, allo straniero, lo accoglie. Merito di una visione laica che lo Stato ha imposto fin dalla sua indipendenza, autoproclamata, il 31 agosto del 1991, così affrancandosi dalla dominazione sovietica che, da par suo, portava le colpe di una ideologia che, in nome di un ateismo di stato poliziesco, minava alla base i principi di libertà dell’uomo. Fatto molto grave, tanto più quanto calpestava quei valori fatti propri dal comunismo e dalle lotte in nome di esso, per imporre una visione decisa da pochi uomini, da un partito, sulla intera popolazione alla quale si negava, si è voluto negare, con la libertà di scelta anche quella della sua storia e delle sue tradizioni, ora impedendole, ora nascondendole, cancellandole dai libri, dalla cultura, dalla vita, obbligandoli a una unica dimensione che era quella del potere sovietico.
“Ho saputo dell’esistenza di personaggi come Amir Temur, più conosciuto come Tamerlano, il condottiero nato a Shakhirisabz, solo dopo l’indipendenza. I sovietici avevano azzerato la nostra storia sui libri, facendola cominciare dal loro arrivo qui” ci dice Gula, la guida che ci ha fatto conoscere Tashkent.
Di tutte le città uzbeke, come già capitato a Khiva, colpisce la cura meticolosa degli addetti che a mano, una ad una, raccolgono le foglie cadute, strappano i fiori appassiti, bagnano le aiuole con l’innaffiatoio, mentre per i prati, sempre ben rasati, sono previsti sistemi di irrigazione capillare che mantengono il verde a dispetto dei 250 giorni di sole di cui gode il Paese e dei 40 gradi all’ombra che incombono nei mesi centrali dell’estate a partire dalla primavera. Moltissimi i gelsi che spandono i loro dolcissimi frutti per le strade. D’altra parte è da questa pianta che prende linfa la tessitura della seta che è uno dei prodotti qui più diffusi.
Del tutto sparita la tradizionale paranja, il costume costituito da un lungo mantello che copriva la testa, mentre un velo nero, di crine di cavallo, nascondeva il viso. Il raro merito di questa liberazione va al periodo comunista che ne proibì l’uso e, per questo, si ricorda un 8 marzo del 1927 in cui un gruppo di donne uzbeke, arrivate nella grande piazza Registan di Samarcanda, accesero un falò dentro il quale gettarono il velo. E’ importante notare che, d’allora, tranne che per il fazzoletto o il velo in testa, il volto delle donne è sempre libero, così come capita di incontrarne molte, soprattutto tra le giovani, con i capelli sciolti e al vento. L’espressione più autentica di un Paese che merita di essere conosciuto.
Il nostro viaggio è terminato, porteremo nel cuore le grandi bellezze e il sorriso della gente uzbeka.
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Qui il clima è decisamente più caldo, con una temperatura che sfiora i 40 gradi e senza il sollievo del piacevole venticello di cui avevamo goduto a Khiva.
Ma il desiderio e l’entusiasmo di scoprire questa nuova meta del nostro viaggio ci infonde le energie necessarie. Bukhara non è un piccolo centro raccolto come Khiva, ma tutto è comunque raggiungibile a piedi.
C’è davvero tanto da vedere in questa antichissima città museo sopravvissuta nel tempo, alcuni monumenti risalgono al 9-10° secolo, realizzati in mattoni di fango caratteristici della zona, a differenza del resto del mondo, dove l’architettura islamica faceva uso prevalentemente della pietra.
Difficile, anzi impossibile, trasferire su carta l’atmosfera unica dei vicoli labirintici del centro storico, delle piazze piene di famiglie che passeggiano, mangiano, danzano, giocano all’ombra dei gelsi secolari, sempre sorridenti e desiderosi di far sentire a proprio agio i turisti.
Le madrase, le fortezze reali, le moschee, gli splendidi mosaici, le cupole color turchese, gli alti minareti e il trionfo di colori degli abiti, dei tappeti, degli oggetti di artigianato in vendita un po’ ovunque contribuiscono a dare l’impressione di trovarsi in un luogo sospeso nel tempo.
Visitiamo la fortezza di Ark, , l’antica città reale, il prezioso Mausoleo di Ismail Samani e quello di Chasma Ayub, della fonte di Giobbe (all’interno un piccolo ma interessante museo dell’acqua), il minareto Kalon, la moschea di Bolo-Khauz, il complesso Poi-Kalyan, il bazar coperto, la splendida piazza del Lyabi-Hauz, cuore e centro catalizzatore della città, costruita intorno ad un’enorme vasca e circondata da edifici religiosi, caravanserragli e antiche madrase.
La sosta per il pranzo ci consente di gustare il caratteristico plov (pilaf), piatto a base di riso, carne, carote, cipolle, aglio, cumino, peperoncino e uvetta, preparato davanti ai nostri occhi.
C’è talmente tanto da vedere, in uno spazio così concentrato, che i nostri occhi sembrano non bastare a contenere tutto e confidiamo che l’obiettivo della macchina fotografica, catturando e fermando qua e là scampoli delle bellezze da cui siamo circondati, contribuisca a fissare meglio i tanti input visivi che stiamo ricevendo.
Abbiamo la fortuna di trovarci a Bukhara in coincidenza col Festival internazionale della seta e delle spezie, divenuto nel tempo una vera e propria celebrazione della cultura uzbeka, una tre giorni dedicata alla promozione e conservazione delle antiche arti del paese.
Lavorazioni artigiane della seta naturale, dell’oro, della ceramica e del legno vengono esposte praticamente ovunque, accanto a spezie, tè ed infusi vari.
Un trionfo di bancarelle diffuse, tra un mare di colori, in tutte le vie e le piazze centrali della città, mèta di genti venute da tutto il paese per acquisti ai quali pure noi non sappiamo sottrarci.
Ci lasciamo andare al flusso del fiume umano dei tanti visitatori del festival, siamo inebriati dai profumi delle spezie, dal trionfo di colori di tappeti, tessuti e oggetti vari esposti ovunque.
In questo contesto possiamo anche toccare con mano gli aspetti più comportamentali del vivere quotidiano della gente che si rivela ammirevole per la sua spontaneità nei rapporti, i volti sempre sorridenti, quasi orgogliosi di esibire le loro dentiere d’oro. E’ un piacere essere avvicinati da persone, più le donne in verità che, incontrandoci, desiderano essere fotografate con noi, un desiderio per altro ricambiato, non essendo minore il nostro di fotografarle ed essere fotografati con loro. Una estrema cordialità che è il tratto più tangibile di questo popolo sospeso tra passato, presente e futuro, dove incontri donne con i loro vestiti lunghi e colorati, composti da una tunica ricamata e sotto i pantaloni dello stesso colore, ma anche donne, in particolari le più giovani, vestite all’occidentale, seppur con un tocco d’oriente nei colori sempre accesi, il rosso ad esempio, e nei ricami, mentre magari si riparano dai raggi infuocati del sole con un ombrellino.
Il programma del festival include performance di bande provenienti da diversi parti del paese, giochi nazionali, degustazioni di cibo uzbeko. Assistiamo ad una sfilata di moda e veniamo invitati a partecipare a danze entusiasmanti davanti alla madrasa Nodir Devan Beghi.
Impossibile, infine, non fare una visita ad uno dei centri di realizzazione dei famosissimi tappeti con motivi ad esagoni ed ottagoni, di cui parlò anche Marco Polo. Quelli più di pregio sono in seta finissima, quasi impalpabili, ma hanno prezzi che pochi possono permettersi di spendere. Sorseggiando un ottimo tè, scopriamo che il tappeto cosiddetto “Bukhara” si chiama così non tanto e non solo perché prodotto in questa città (adesso è così), ma perché per secoli qui era il centro nevralgico di scambio dei tappeti tra Oriente e Occidente.
Dopo tre giorni di immersione totale nella contagiosa atmosfera di Bukhara, chiudiamo le valigie, lasciamo il comodo Hotel Zargaron Plaza e saliamo sul pulmann che ci porterà a Samarcanda, con una sosta importante a Shakizabz.
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Quale sia stato questo salto per Suor Stella lo troviamo indicato nella sua autobiografia “Diversamente suora”, edita da Luoghi Interiori, con la prefazione di Osvaldo Bevilacqua.
Un libro che ha la forza di un testo di catechesi che, attraverso il racconto della propria esistenza, testimonia il lavoro compiuto su se stessa per vincere le proprie debolezze umane e smussare, nel tempo, quei sentimenti che potevano ostacolarla nella missione del suo agire terreno ovunque sia stata chiamata.
Nata da famiglia cattolica nel villaggio abitato da cattolici, musulmani e ortodossi, di Crniče, “arroccato sul fianco di un monte che fa parte del massiccio Kamešnica, lo spartiacque tra la Bosnia e la Dalmazia” a tre chilometri da Bugojno, sulle rive del Vrbas, suor Stella, nata Nevenka Okadar, non appena presi i voti si vede trasferita a Roma. Qui avrebbe cominciato prestando una lunga opera di volontariato nelle carceri romane, un’esperienza interessantissima da leggere per i ritratti e le riflessioni sulla natura umana che ne emergono, esempio di un cammino ricco di aperture umane verso anche i peggiori assassini, quindi come insegnante nell’Istituto Scolastico delle Suore Francescane di Cristo Re di via dei Colli della Farnesina a Roma, dove si trova tutt’ora, per poi culminare nel corso dell’ultima guerra nella sua terra, la Bosnia. Guerra che nel suo libro suor Stella racconterà fin da quando, ricevuta la notizia che la madre era in fin di vita, si precipita a Crniče, percependo subito nell’aria, tra la sua gente, i venti di violenza che si stavano preparando.
All’inizio cattolici, ortodossi e musulmani si riunivano tutti insieme per pregare, ecumenicamente, nella piazza del paese, racconta, poi i serbi picchiarono il pope ortodosso minacciandolo di ucciderlo se avesse continuato. Da quel momento, per la paura, non venne più a pregare, seguito un po’ alla volta da tutti gli altri fedeli ortodossi. La guerra vedrà impegnata suor Stella con l’Associazione italo-croata di Roma, fondata per aiutare i bisognosi croati e bosniaci, nella raccolta di aiuti umanitari. Sua l’idea di provvedere ai bambini di quelle terre con i contributi dei bambini italiani. Il suo giro per tutte le scuole della capitale, dove ogni bambino dava qualcosa dei propri risparmi, avrebbe contribuito a raccogliere ben dieci milioni di lire. Infine la partecipazione alla trasmissione “L’istruttoria” di Ferrara, in cui sostenne fermamente la tesi, subito contestatissima, che le donne bosniache stuprate dai serbi non dovevano abortire. “Siccome sostenevo che non fosse necessario che le donne stuprate abortissero, sebbene lo avessi pensato all’inizio degli avvenimenti drammatici, le femministe con cui eravamo collegati hanno iniziato ad attaccarmi. Le loro parole nei miei confronti equivalevano a una vera e propria sassaiola, una lapidazione. Non le giudico né le condanno perché avevano un altro criterio di valutazione di quei tristi eventi. Ma io ritenevo non andasse aggiunto male al male, perché uccidendo il frutto della violenza le donne non avrebbero superato il trauma, anzi ne avrebbero aggiunto un altro”.
Poi la fine della guerra, il lento passaggio ai nostri giorni, la chiamata in tv nella trasmissione di cucina “La prova del cuoco” che riservava dieci minuti a “Cosa passa il convento”. Suor Stella pensava all’impegno di una volta, invece è andato avanti per tre anni, pur non essendo lei una cuoca, ma – mandata dalla Madre Superiora – mettendoci la sua volontà e voglia di imparare, così diventando, suo malgrado, famosa.
In tutta la sua autobiografia i fatti raccontati non sono mai fini a se stessi, ma offrono al lettore occasione di riflessioni profonde, così da far assurgere davvero “Diversamente suora” a un testo alla cui fonte si può abbeverare anche un non credente. Perché il libro ci parla di vita e apre a domande in cui ciascuno di noi cerca le risposte più giuste per come affrontare questa vita, le continue prove a cui essa ci sottopone. Suor Stella le trova in Dio. Quel Dio al quale offre se stessa, compreso il dolore di quel male incurabile che la sta attraversando e che un giorno, per una banale caduta, ha scoperto dentro di sé, dando così un’altra risposta a un altro “Perché, Signore? Perché a me?”. “La differenza tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ della mia malattia sta nel modo di vivere il mio oggi. Mentre prima facevo progetti a lunga scadenza e soffrivo molto se qualcosa si frapponeva alla loro realizzazione, ora accolgo dalle mani del Padre ogni singolo giorno come un dono prezioso da vivere al massimo e dove non deve mai mancare la gioia”.
I proventi della vendita di questo libro vanno alla Associazione ONLUS “So.Spe”. Il resto per il restauro di una chiesa in Istria.
A cura di: Studio Spinapolice & Partners
Si tratta del Turkmenistan, Kazakistan, Tagikistan, Kirghisistan e Uzbekistan.
Di esse si sa molto poco, forse solo qualche cenno storico, più che altro dell’Uzbekistan per comprendere sul proprio territorio città note per trovarsi su quella via della seta come la mitica (anche per la canzone di Vecchioni) Samarcanda e Bukhara, quest’ultima anche per i suoi tappeti. Un bel supporto alla loro conoscenza viene ora da Erika Fatland, una scrittrice e antropologa finlandese, che ha scritto un libro molto interessante e istruttivo intitolato “Sovietistan”, edito da Marsilio col sottotitolo “Un viaggio in Asia centrale”, da prendere anche come un invito per quanti sono stanchi delle solite proposte modaiole.
C’è da dire che personalmente sono appena reduce da un viaggio in Uzbekistan e il libro della Fatland mi ha accompagnato lungo un percorso, che mi ha particolarmente colpito per i tanti tesori architettonici di arte islamica, la cura dei giardini e dei parchi delle città, e per la cordialità della gente. Certo, per il resto, sono visibili residui di arretratezza, ma parliamo di territori sconfinati di steppa bruciati da un sole che qui splende 250 giorni all’anno, per concentrarsi ben oltre i 40 gradi centigradi nei tre mesi centrali dell’estate. Da aggiungere che l’Uzbekistan non ha sbocchi al mare.
Ma è un po’ così per tutte le altre quattro repubbliche dell’Asia centrale, fatta eccezione per il Turkmenistan, che si affaccia per un lato sul mar Caspio, mentre una folle politica sovietica, che aveva puntato a trasformare i campi dell’Uzbekistan e del Kazakistan in una intensiva monocoltura del cotone, ha finito per prosciugare del tutto il grande lago Aral, per altro neppure più alimentato dal fiume Amu Darya la cui foce ora, per un erroneo progetto di irrigazione, si perde nel deserto.
Ma non sta solo qui il tragico lascito dell’influenza sovietica, che caratterizza un po’ tutta la vita dei paesi dell’Asia centrale. Sempre il Kazakistan è stato usato dai sovietici per esperimenti nucleari che hanno visto esplodere ben 400 bombe atomiche, rendendo il territorio intorno a Semipalatinsk un cimitero e un ricovero di malati di cancro.
Erano anche Stati in cui Stalin ha fatto deportare ben 18 milioni di persone, non allineate al regime, moltissime morte di malattie e di stenti, altre fucilate. Per non parlare poi dei regimi scarsamente democratici che sono seguiti e che caratterizzano ancora la vita politica.
Quasi tutti gli Stati qui hanno a capo un presidente che mantiene il potere dal primo giorno di indipendenza, collocabile, a seconda delle repubbliche, tra il 1991 e il1992, cioè da quasi trent’anni. Potere, per altro, ricevuto già al tempo dei sovietici provenendo tutti dalle file del Partito Comunista, anche se oggi questo non c’è più, per aver scelto tutti un’opzione nazionale e tradizionale sul piano della religione ma in una dimensione fortemente laica, che vede nel fondamentalismo islamico il peggior nemico.
Così come lo vede nella libertà di stampa, di associazione e di manifestazione. Della tradizione sovietica e stalinista, pur con carature diverse, rimane anche il culto della persona. Il Turkmenistan, dal 1991 al 2006, quand’è morto, ha avuto in Turkmenbashi, alias Saparmurat Atayewiç Nyýazow, il padre è padrone che piazzava le sue statue d’oro nelle piazze e imponeva nelle scuole la lettura obbligatoria del suo libro Ruhnama, cioè “Il libro dell’anima”.
Alla sua morte, il suo posto è stato preso da Gubanguly Berdimuhamedow, con un passato di dentista, che ne ricalca le orme. Scrive la Fatland: “Nel 2010 il dentista assunse il titolo di Arkadag ‘il Protettore’. Due anni dopo in città apparve il suo primo ritratto scultoreo. Diversamente dalle statue dorate di Turkmenbashi, era in marmo bianco”.
In Uzbekistan ha dominato per 26 anni, fino al 2016, Islom Karimov, con meccanismi simili e gli eccessi della figlia Lola che ora, comunque, si trova agli arresti famigliari, mentre il potere è passato al primo ministro Mirziyoev, un ingegnere che punta molto alla modernizzazione del paese. Il più libero e democratico sembra essere il Kirghisistan, il quale però è anche il più povero, con un terzo degli abitanti che vive sotto la soglia della povertà e che “come il Tagikistan, per poter tirare avanti, dipende dai guadagni dei lavoratori che sono emigrati in Russia”.
A cura di: Studio Spinapolice & Partners
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