Nel paese dei mostri selvaggi: Adelphi ripropone Sendak.

Dallo scorso gennaio, grazie ad Adelphi, è di nuovo disponibile in libreria il classico di Maurice Sendak, nella nuova traduzione di Lisa Topi.

In Italia l'opera era uscita nel 1981 nell'edizione Emme e nel 1999 per Babalibri, in entrambi i casi con la traduzione di Antonio Porta.

Trattandosi di albo illustrato, saremmo portati a incasellare il testo nella categoria di Letteratura per l'infanzia, ma Nel paese dei mostri selvaggi è un inno all'immaginazione e alla libertà che parla a tutti, adulti e bambini. 

La potenza delle immagini e il sentire evocativo ci colpisce universalmente, nella nostra parte umana più preziosa. Un invito a stimolare il pensiero magico che scardina la logica quotidiana e rimodula la realtà. Non avremmo forse tutti bisogno a volte di scatenare, come Max, «il finimondo»?

Chiamiamo in causa C. S. Lewis -autore de Le cronache di Narnia-, con il suo saggio Tre modi di scrivere per l'infanzia:

Dobbiamo scrivere per i bambini con gli elementi dell’immaginazione che abbiamo in comune con loro [...] Dobbiamo rivolgerci ai bambini come a nostri pari, sfruttando quella parte della natura umana in cui siamo loro pari.

Se il racconto non è altro che la forma più idonea ad esprimere quello che l'autore ha da dire, allora i lettori interessati all'argomento vorranno leggerlo e rileggerlo a qualsiasi età. […] Sarei tentato di stabilire una regola in base alla quale una storia per bambini che piaccia solo ai bambini non sia un granché: quelle veramente affascinanti durano.

E questo avventuroso incontro con i "nostri mostri", che una volta affrontati faccia a faccia così cattivi poi non sono mai, è una storia veramente affascinante che, infatti, dura e riprende vita con la nuova traduzione di Lisa!

Confrontarsi con Porta non dovrebbe essere stato un gioco da ragazzi... ti sei sentita, concedimi l'espressione, un po' un nano sulle spalle dei giganti?

Sì. Mi sono sentita a lungo come un nano e mi ci sento ancora! È stata una decisione difficile accettare l’incarico della traduzione, sia perché si tratta di un classico, sia perché la precedente edizione italiana era fortemente connotata dalla figura di Antonio Porta. Non credo che lo stesso clamore avrebbe accompagnato l’uscita di una nuova traduzione in altre lingue. E questo ci dà la misura di quanto il poeta avesse impresso un segno personale sul testo di Sendak.

La maggior parte delle discussioni che hanno avuto luogo sui social network - non mi riferisco ovviamente alla critica - ruotano intorno alle due traduzioni italiane senza prendere in considerazione l’originale. La mia impressione è che molti lettori non professionisti inconsapevolmente identificavano il testo di Nel paese dei mostri selvaggi con la versione di Porta anziché con l’autore. È l’effetto prodigioso di una traduzione riuscita, di cui non si mette qui in discussione il merito.

Ma, davanti all’impresa di una nuova traduzione, ho deciso di confrontarmi solo con il testo di origine, nell’ottica di far emergere il più possibile il suo carattere. Non vorrei dare l’impressione che quanto detto sia stato deciso in maniera programmatica. Di formazione non appartengo al mondo degli albi illustrati perché ho seguito un percorso accademico in letteratura e la mia esperienza professionale, fino al 2014, si è concentrata unicamente sulla narrativa.

La fase di studio è stata molto più lunga di quella di traduzione e revisione. Non si tratta, dunque, di una posizione maturata precedentemente. Lavorando in dialogo con tutta l’opera di Sendak, ho pensato che le chiavi da adottare perché questo testo fosse vibrante e affilato in italiano, tanto quanto lo è in inglese, fossero il ritmo, la sintesi, e l’ellissi, per favorire l’integrazione con le immagini e quel fine enigma di cui Sendak è maestro.


Quali sono state le difficoltà più significative? Già la questione del titolo credo porti con sé diverse problematiche. Spesso il lavoro del traduttore passa ingiustamente nell'ombra, ma l'operazione culturale che si attiva è estremamente complessa e delicata, mettendo in gioco diverse competenze...

Non ci sono stati punti più critici di altri. Come dicevo sopra, penso che la risonanza vada percepita nella strategia globale. Un testo - e tanto più un testo così denso e breve - esercita il suo potere non solo nell’equilibrio delle doppie pagine ma nell’alchimia d’insieme. Tradurre un libro illustrato richiede, oltre a competenze testuali, la capacità di decifrare il linguaggio visivo e di capire in che modo questo si integra con la scrittura senza che i due si sovrappongano. 

Per quanto riguarda il titolo, Where the wild things are ha sollevato dibattiti tra esperti di tutto il mondo, i quali concordano nel non trovare, tra le traduzioni esistenti, una soluzione ottimale - ne parlerò più a lungo nel numero della rivista Tradurre che uscirà a maggio. Grazie ad Anna Castagnoli, sono entrata in possesso degli atti del convegno internazionale su Maurice Sendak, tenutosi nel 2015 alla Bibliothèque nationale de France, che danno prova di una discussione ancora aperta e appassionante. Io trovo che, al netto delle discrepanze tra mostri e things, Nel paese dei mostri selvaggi sia un’ottima traduzione e che non ci sia motivo per non recuperare il prezioso contributo lasciato dal traduttore precedente. 

A quanto so il libro è già in ristampa - i miei figli hanno ricevuto già una copia ciascuno... Qual è a tuo avviso la sua forza?

Credo di avere risposto, in parte, attraverso le altre domande. In questo albo c’è un’interazione completa tra testo e illustrazioni, tanto che l’uno non si può leggere senza l’altro e viceversa. L’architettura della struttura e del piano sequenza è incredibilmente sofisticata. La rete di richiami iconici e semantici crea dei soprasensi che agiscono in profondità nella lettura.

Tutte queste osservazioni porterebbero a credere che ci si trovi di fronte a un meccanismo oscuro e faticoso e, invece, la storia risplende per la sua folgorante chiarezza. Come ogni grande opera di letteratura, Nel paese dei mostri selvaggi si presta a multipli livelli di lettura e il suo mistero non finisce mai. 

 

Tolto ‘Ila e le Ninfe’ perchè maschilista, ma il giovane era gay.

Maschilismo preraffaellita e femminismo omofobo.

Quando si ha della vita una visione manichea si rischia di smarrire la verità. E tutto per compiacere #MeToo, la campagna contro le molestie sessuali ormai diventata virale.

È quanto è accaduto a un celebre dipinto di John William Waterhouse, affascinato e sedotto dal mito di Ila. Waterhouse è stato un pittore della Confraternita preraffaellita, particolarmente attivo su dipinti del ciclo mitologico e arturiano, ma qualche giorno fa ha subito lo smacco dello sfratto dalla Manchester Art Gallery: infatti uno dei suoi dipinti passati alla memoria collettiva è stato ritenuto offensivo. ‘Ila e le Ninfe’ (del 1896) a insindacabile giudizio di Clare Gannaway, infaticabile curatrice della collezione d’arte contemporanea del museo, è stato rimosso dalla parete perché colpevole di esprimere un linguaggio maschilista e offensivo nei confronti delle donne.

Ve lo ricordate il quadro, no? Ila, un teenager muscolosissimo e di bell’aspetto, si sporge sullo stagno dove sette ninfe stanno evidentemente raffreddando i propri estrogeni.

Al di là dei boccacceschi commenti da caserma che ci ha sempre suscitato un dipinto del genere, rosi più che altro da una sana invidia maschia, immersi sui testi d’arte e di mitologia scoprivamo però con una certa delusione la natura di Ila. Haivoglia cara Miss Gannaway a lanciare il suo anacronistico j’accuse di stampo femminista su Waterhouse e su quel frame dai toni impressionisti e pioneristici rispetto a Snapchat, ma la nuda (è il caso di dire) verità è un’altra. 

Potremmo anche pensare che sia stata una forma di marketing museale tant’è che la parete orfana del dipinto è la più ‘visitata’ ed è stata tappezzata da post it da parte dei visitatori in cui ognuno lascia un proprio commento (e non sono molto lusinghieri per questa forma di censura artistica).

È vero che non siamo di fronte a una sindrome di Stendhal davanti a contemporanei foglietti gialli vergati da appassionati e scolaresche, ma restiamo basiti dalle argomentazioni di Miss Gannaway, che ha tolto quella tela a suo dire rappresentante la mercificazione delle nudità femminili, allontanando dal museo quei corpi fissati dalla cupidigia maschile e da una voluttà porcina presente in tutti coloro che negli anni si sono imbattuti nelle bianche carni delle sette ninfe. 

Ebbene tutto ciò è un falso ideologico. E sì, basta leggere il mito di Ila. Il giovane belloccio, invidiato da noi tutti sin dai tempi della pubertà, era in verità il compagno di Ercole. Il forzuto spaccamontagne non solo lo rende orfano ammazzandogli il padre, ma lo rapisce perché se ne era invaghito, presto ricambiato. L’eromeno, cioè nella cultura classica l’adolescente che ha un rapporto di profonda amicizia virile con un adulto (che non è detto che abbia una finalità sessuale),  si imbarca con la truppa degli Argonauti assieme al suo amato.

Durante uno scalo della nave a Misia (nella Turchia asiatica) la coppia di innamorati sbarca per cercare una fonte d’acqua dolce, Ila trova presto uno stagno d’acqua potabile ma le ninfe che danzano nei prati se ne innamorano subito, talmente tanto che appena il giovanotto dai gusti sessuali contrari prova a fare scorta idrica quelle se lo trascinano via. Ercole accorre alla grida disperate di Ila (che sa bene qual è il futuro che lo attende: sette ninfe affamate di sesso che lo violenteranno a turno chissà per quante notti non è una bella prospettiva) ma ormai è troppo tardi, il giovane è stato rapito per l‘eternità e non ci sarà nessun riscatto da pagare.

Ebbene, cara Miss Gannaway, ora è lei a essere accusata di omofobia. Lei probabilmente non tollera la scelta di Ila di non includere la bellezza femminile tra i propri gusti sessuali, evidentemente è una discriminante che sfocia in una bieca censura.

Povero Ila, che ha subito in vita una ripetuta violenza carnale consumata tra i giunchi del Bosforo da parte di ossesse del sesso mentre ora il suo mito artistico viene oscurato perché fatto passare per uno spregevole maschilista seduttore di pavide e verginali fanciulle. 

 

L'antifascismo più dannoso del fascismo: lezione di Pasolini all'Italia.

Se parli ti tacciano di  destra o di  sinistra, anche se poi dentro si è anarco individual liberisti. Se non parli ti indicano come un qualunquista menefreghista lontano dalla res publica.

Allora, cito. Non in giudizio, per carità, che una volta m’è bastato per il senso del grottesco che alberga nelle aule giudiziarie. Mi ripeto, allora cito. E citiamo. P.P.P. Cioè Pier Paolo Pasolini, che resta il più grande intellettuale italiano del Novecento, visionario e anticipatore. Mi limito a due sue citazioni, che faccio mie.

La prima, caro Pier Paolo (tanto questa confidenza me l’avrebbe concessa, abbiamo un poker di passioni comuni: il mare-lago-dune di Sabaudia, il calcio come sacra rappresentazione della vita, la narrativa e il senso di obiettività fotografando la realtà anticipando il futuro) affonda il parallelo col brutale pestaggio di un carabiniere a Piacenza durante un corteo pacifico. Ecco, appunto, fotografiamo il reale, con l’obiettivo di PPP.

Eccola la prima citazione. “II PCI ai giovani! È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati... Adesso i giornalisti di tutto il mondo vi leccano il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccolo borghesi, amici.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano”. Beh, il blob coraggioso che sfilava per la lama d’asfalto di Piacenza in un corteo pacifico (!) in nome del razzismo e dell’antifascismo poi ha preso a sberle e calci un (uno!) carabiniere, che era lì per scortarli, per salvaguardarli, per proteggerli, che ha giurato sulla Costituzione che difenderà sempre questo Paese dal Fascismo. Bella prova di coerenza da parte di chi inneggiava alla pax. E poi, ancora, la seconda citazione di P.P.P.

Uno dei maggiori pensatori del secolo scorso e della storia italiana scriveva a Moravia: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”.

È il 1973. E siamo nel brutto mezzo degli anni di piombo. Ah, vorrei continuare con la parte finale dell’ode al poliziotto da parte di PPP, tornando alla prima citazione: “Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”. Ecco, appunto, che fine ha fatto il mantra peace and love che scandiva le vostre giornate? I più grandi nemici degli italiani sono gli italiani, appartenenti a un Paese evidentemente fermo a quarant'anni fa (secondo PPP) e a oltre settant'anni fa (secondo me, perchè non abbiamo fatto i conti con la Storia) e che fatica a immaginare che possa esserci un domani, altrimenti spiegatemi -perchè ancora non l'ho capito- che a Macerata sfila il corteo antirazzista e antifascista contro un povero demente (tal Traini) mentre ci si è dimenticato che tre (ora sono diventati quattro) spacciatori in carriera (neri rossi verdi o gialli o bianchi non ha importanza) hanno squartato una povera ragazza.

 

Cosa non è una serie TV? 

Non si sa bene come guardarle, le serie tv.

Nel senso che, oltre lo sbraco spensierato e l'assunzione automatica, non abbiamo strumenti critici che ci guidino in una loro lettura non superficiale.

Il fatto che a prima vista possano sembrare solo evoluzioni di un qualcosa preesistente non ha certo aiutato ad aprire dibattiti e ricerche sulle peculiarità esclusive delle serie tv, nel panorama delle opere narrative. Siamo sfortunati, rispetto ai nostri bisnonni. Al loro tempo, la nascita e lo sviluppo del cinema furono supportate da una profonda riflessione critica ed estetica.

In attesa che qualcosa del genere accada anche per le serie tv, cerchiamo almeno di sgombrare l'affollatissimo campo da qualche equivoco che rischia di portare fuori strada lo spettatore neofita. Se non abbiamo una definizione esatta di cosa sia effettivamente una serie tv, possiamo almeno stabilire cosa una serie tv non sia, a dispetto delle apparenze. Dunque: 

1. Non è un film lungo

Più o meno come un tema musicale non è una sinfonia. Usano lo stesso linguaggio fatto di immagini e suoni, però... Intanto, non si guarda una serie come si vede un film. I ritmi della narrazione sono molto diversi e non è richiesto lo stesso tipo di attenzione. Puoi non capire un film perché perdi una scena o addirittura un'inquadratura. Con le serie questo non accade. Puoi sempre recuperare. Ma soprattutto di film, in una serie ben fatta, ce ne sono dentro diversi. Uno dopo l'altro o intrecciati tra di loro, in rapporto di analogia o contrasto tra di loro, a comporre un'opera più vasta. C'è una trama in ogni puntata e c'è una trama di serie. Esattamente come in un romanzo possono esserci più racconti. È vero che anche un film può avere molte sottostorie, ma in una serie le vicende parallele sono molto più sviluppate e i personaggi secondari sono tratteggiati con maggiore cura. 

Insomma il materiale narrativo, in una serie, è generalmente più vasto.

2. Non è uno sceneggiato televisivo

Lo sceneggiato nasce per divulgare opere letterarie o raccontare fatti e personaggi storici alla grande platea dei telespettatori di una tv generalista. Parla a gente che ha appena finito di vedere il tg e si è sbracata sul divano. La serie tv ha un intento spettacolare tutto suo. Parla a utenti che si muovono a piacimento, senza regole di orario, tra tv e computer. Spettatori volubili. Una scena moscia e ti stoppano. Così, se nel primo caso l'obiettivo principale è la fedeltà ai testi e ai fatti, nel secondo la condizione essenziale è riuscire a catturare l'attenzione. Nessuno si sognerebbe mai di valutare la spettacolarità di uno sceneggiato. Al contrario, in una serie il livello di spettacolarità è tra i primi criteri di scelta dello spettatore.

3. Non è d’Autore

Una serie tv è un'opera collettiva. È un prodotto di un'industria che tende al profitto. Non vuole rappresentare il punto di vista di un autore. Beninteso, anche il film lo è, però la "politique des auteurs" e le logiche produttive hanno innalzato il ruolo del regista fino a farne il deus ex machina dell'opera filmica. Così, si "vende" il film come opera di un autore (il regista) che vi esprime la sua visione del mondo. Al contrario, nelle serie tv i nomi dei registi (ce ne sono diversi a seconda degli episodi) sono scritti in piccolo e l'autore principale rimane l'ideatore, lo scrittore che ha creato trama principale e personaggi. Ne deriva che nessuna serie tv può essere vista come l'espressione di un artista vero o presunto.

4. Non è per famiglie

Una serie tv cerca di conquistare lo spettatore singolo. È lui che deve cliccare sull'icona del servizio on demand o streaming, i canali su cui è diffusa. Non intende riunire una famiglia davanti a un televisore in una certa data e a una certa ora. La differenza è sostanziale. Una serie tv vive da sola. La scegli e la vedi. È una scelta del singolo spettatore. Dunque è al singolo spettatore che si rivolge. Non deve "mediare" tra le preferenze dei diversi componenti di una famiglia. Non deve aspirare ad essere "per tutti". Può essere, ad esempio, smaccatamente giovanilistica o esclusivamente maschile. Può essere molto divisiva.

5. Non è di “serie B”

Nulla a che vedere con la produzione seriale di film di genere a basso costo e a scopo puramente commerciale degli anni cinquanta e sessanta. Oggi le serie tv hanno budget medi di tutto rispetto. Non mancano i kolossal. Il livello tecnico e artistico è mediamente alto. Ovviamente ci sono serie più ricche di soldi e talenti rispetto ad altre, ma non si ha quasi mai l'impressione di vedere un lavoro sciatto o mal confezionato.

6. Non è di “distrazione di massa.”

Il fatto di tenere incollati agli schermi per ore ed ore gli spettatori, non fa delle serie tv un modo per alienare la gente dal mondo in cui vive. La loro materia prima è per forza di cose strettamente legata alla vita di chi la segue. Pena il falllimento. Le realtà raccontate devono convincere ed essere riconoscibili, socialmente o psicologicamente. Anche politicamente. Tanto per dire, chi ha seguito "House of cards" immaginando nei vari ruoli alcuni dei protagonisti della scena politica italiana del momento, non ha certo capito i protagonisti dell'attuale scena politica meno di coloro che hanno seguito tutta la campagna elettorale sui social o nei talk show. 

7. Non è per sempre

Anche il più cieco dei consumatori abituali sa che la sua serie preferita avrà una fine. Non è una telenovela o una soap opera che aspira a entrare nella sua vita accompagnandola per un bel pezzo. Qui parliamo di tempi ben più stretti. Per quanto ampio l'arco narrativo possa essere, per quanto il successo possa aumentare le stagioni di una serie, la storia finirà, in un modo o nell'altro, nell'arco di poche stagioni. Lo si sa fin dall'inizio. Dall'altra parte, la natura dei mezzi di diffusione e la grande concorrenza rendono possibile seguire una serie nei tempi preferiti. O di abbandonarla per sempre, se non piace.

8. Non è un fenomeno passeggero

Il boom produttivo che si sta verificando risponde a una richiesta crescente. L'aumento degli spettatori è costante e regolare. Prima all'interno delle programmazioni tv, poi in dvd o in streaming. Ormai le serie tv non sono più inquadrate in un palinsesto televisivo, ma vivono di vita propria, al di là del mezzo di diffusione attraverso cui raggiungono il pubblico. E il pubblico le ama, sempre di più. Non potranno essere scalzate da altre forme di intrattenimento televisivo. Semplicemente perché non ne fanno più parte.

9. Non è un vizio

Per alcuni seguire le serie tv può avere i connotati della compulsione. Tuttavia immergersi in una storia fino a familiarizzare, empatizzando, coi suoi personaggi, richiede presenza e partecipazione. Atteggiamento vigile, concentrazione sull'intreccio, occhi sui protagonisti. Bisogna tenere accese le facoltà mentali, oltre che il cuore. E allenare l'intelletto attraverso le emozioni rientra nelle buone abitudini.

10. Non è la realtà

Questo va detto a chi ci si tuffa a capofitto; a chi vi smarrisce il senso critico; a chi elèva il mondo immaginario delle serie a suo habitat; a chi fa sconfinare i personaggi dallo schermo al proprio quotidiano. Capita. Una sorta di effetto "Grande Fratello" è tra i rischi da calcolare, quando una serie cattura molto l'attenzione. E il guaio è che ci si diverte anche, a farsi accompagnare dai questi amici virtuali nella vita di tutti i giorni. Però è un rischio, appunto, non solo per la propria salute mentale. Anche per l'estetica. Perché a volte, a guardarle con occhio distaccato e spirito critico, alcune serie tv sono veramente belle.

 

 

Un Master per prevenire la dispersione scolastica.

Sta per prendere avvio la prima edizione del Master in Orientamento narrativo e Prevenzione della dispersione scolastica, diretto dal Professor Federico Batini, con sede presso l'Università degli Studi di Perugia, Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione: chi fosse interessato a partecipare è ancora in tempo, le iscrizioni sono infatti aperte fino al prossimo 16 febbraio!

Le storie siamo noi, nome del progetto dedicato all’orientamento narrativo, e curato tra gli altri proprio dal Professor Batini, è l'espressione che meglio rappresenta il valore pedagogico di tale approccio. 

Abbiamo mai pensato ai «romanzi come didascalie della vita»? L’équipe di studiosi che sta dietro al progetto ha costruito, partendo dalla lettura, interi percorsi di apprendimento finalizzati a consolidare le cosiddette life skills

Leggere dunque non solo per imparare, ma per vivere meglio!

“Cerco nei libri la lettera, anche solo la frase che è stata scritta per me, e che perciò sottolineo, ricopio, estraggo e porto via. Non mi basta che il libro sia avvincente, celebrato, né che sia un classico: se non sono anch'io un pezzo dell'idiota di Dostoevskij, la  mia lettura è vana. Perché il libro, anche il sacro, appartiene a chi lo legge e non per il diritto ottenuto con l’acquisto. Perché ogni lettore pretende che in un rotolo di libro ci sia qualcosa scritto su di lui. “

Ho citato non a caso uno dei passi di Alzaia di Erri De Luca, che lei inserisce nelle sue riflessioni. Dunque finalmente state mettendo nero su bianco, su base scientifica, il valore formativo della Narrazione e della Letteratura... Magari per gli autori era un concetto lapalissiano, pensiamo anche al miscere utile molli di Orazio o al “diletto e utile consiglio” del Proemio del Decameron, ma con l'orientamento narrativo si fa un passo ulteriore...

Certo nessuno nega che l’utilizzo della narrazione e della lettura (come non pensare a Charles Montesquieu che dice: Non ho mai conosciuto un dolore che un’ora di lettura non sia riuscito a dissipare.) siano noti da tempo, tuttavia qui si tratta di un metodo di orientamento, ovvero di un particolare utilizzo della lettura e della narrazione per aiutare i soggetti a controllare attivamente la propria vita e le proprie scelte. Una finalità di empowerment. Il metodo è stato ideato nel 1997 e già nel 2000 aveva trovato le prime applicazioni e sperimentazioni. Da allora abbiamo lavorato sul campo con tutte le età e raccogliendo risultati importanti in termini di sviluppo di competenze, di soddisfazione dei partecipanti, di sviluppo della loro resilienza, della loro identità etc…

 

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