Senza Pietà, il giro d'affari del credito su pegno.

Nell’Europa unita dei banchieri e nell’Italia dei salvataggi pubblici a comando a favore dei grandi sportelli di credito resiste un antico istituto.

Quello del Monte di Pietà. Eh sì, tra monete parallele dal profumo virtuale (bitcoin cianciando) e banconote in via di estinzione nel nome di un distopico dominio bancario non tramonta il banco dei pegni. 

Una storia che affonda le proprie radici al 1400, quando a corto di liquidità e in grave difficoltà si faceva ricorso al credito su pegno: nell’evoluzione bancaria sopravvive questo giro d’affari che vede sempre le banche protagoniste. Il metodo, a distanza di secoli, è sempre lo stesso. Si affidano a uno sportello i beni di famiglia (ori, preziosi vari, orologi) per un prestito a breve termine, scaduto il quale o si riscatta il bene impegnato –con il pagamento di interessi- o questo finisce all’asta. 

In un mondo che macina miliardi e che volge lo sguardo ad altri beni preziosi (l’acqua, non solo fossili e minerali), il giro d’affari dei beni impegnati in Italia si aggira attorno agli 850 milioni di euro, come dichiara Assopegno per il volume attestato nel 2016. Contrariamente a quanto si può credere, il credito su pegno resta anche una delle attività degli istituti di credito, anche se il maggior gruppo bancario italiano, Unicredit, a fine 2017 ne è uscito cedendo alla storica austriaca Dorotheum tutte le sue attività per un giro complessivo di affari che sfiora i 140 milioni di euro. In questo mercato è attivo il Credito siciliano, ha rinnovato la sua azione Ubi acquisendo anche le filiali di Banca Marche. 

E quindi? C’è l’affare? Beh, le banche prestano al massimo mille euro, un prestito molto temporaneo, e spesso, dati Assopegno, i beni impegnati vengono riscattati per il 95%, col solo 5% che finisce battuto all’asta. E il guadagno delle banche? Sugli interessi. Nient’affatto bassi: Unicredit aveva un tasso sulla liquidità concessa pari al 16,71%, Credito siciliano al 18,54% e Ubi  al 12,04%. Un mercato che non smette di crescere, tant’è che Banca Sistema lo scorso anno ha lanciato la app Prontopegno, con cui è possibile richiedere on line una perizia e una valutazione preliminare del bene con la massima discrezionalità. Anche perché, in un mondo che inghiotte soldi su soldi, resta la pudicizia di chi, in difficoltà, chiede un piccolo prestito. 

La crisi delle banche si abbatte sul calcio? Il caso Vicenza.

Il pallone tricolore è sempre più sgonfio. La crisi globale che attanaglia l’Italia non risparmia nemmeno la passione più popolana e popolare degli italiani, colpendo il calcio.

Oggi le società di calcio sono delle mere attività commerciali ed è inevitabile che seguano il corso altalenante e bizzoso del mercato finanziario, talvolta legato anche alle paralisi che colgono gli istituti di credito locali.

Oggi, tocca al Vicenza, che i più nostalgici ricordano come Lanerossi (il lanificio proprio di origini vicentine), la squadra che lanciò campionissimi come Paolo Rossi e Roberto Baggio, una società che conta tante presenze in serie A e che oggi rischia di naufragare in serie C.

Ma facciamo un piccolo passo indietro prima di raccontare questa storia di provincia: la crisi del calcio italiano non è un affare da rubricare solo in ambito prettamente sportivo, va abbracciata nelle difficoltà in cui annaspa il nostro sistema, altrimenti non si spiegherebbero i crac recentissimi del Siena (divorato dalle criticità del Monte dei Paschi, che ha ucciso anche il pluriscudettato basket senese Mens Sana, nell’estate 2014) e di tantissime altre realtà calcistiche sparite dalla mappa prof (Ancona, Gallipoli, Varese, Padova, Latina, Lanciano, Trieste e Parma). Nel girone B della serie C prima del Vicenza è sparito il Modena, a campionato in corso. Infatti, un aspetto è essere cancellati in estate durante l’iter delle iscrizioni al campionato perché non ci sono i fondi e un altro a stagione in corso, quando la Figc si fa garante dello spettacolo con tanto di contratto televisivo (per citare quello più corposo): è la cartina di tornasole del fallimento di un sistema, non solo pallonaro.

Anni fa il presidente Carlo Tavecchio giurò che non si sarebbe più arrivati a un caso Parma (siamo nel 2014…), legato alle acrobazie finanziarie di avventurieri con pochi scrupoli, invece nella stagione 2016/17 in serie B abbiamo assistito al clamoroso caso del Latina, fallito a campionato in corso dietro inchieste promosse dalla Procura che avevano coinvolto il presidente, ma mantenuto in vita con procedure fallimentari pilotate fondamentalmente per salvaguardare la regolarità e credibilità del campionato, tutelando la torta dei diritti televisivi già erogati da Sky. In serie C è peggio, i diritti televisivi sono spicci, tant’è che il Modena s’è inabissato nel vortice dei suoi debiti e la sorte che attende oggi lo storico club biancorosso è appesa a un filo.

“Si potrebbe dire che il Parma Calcio è come la Grecia, ma sarebbe sbagliato. È peggio” così disse il cronista Giuseppe Salvaggiulo durante le criticità che investirono il club emiliano. Non è un’iperbole, ma l’esempio all’epoca abbracciato a una sola società, seppure di serie A, fu limitativo, oggi infatti il grottesco panoramica l’intero sistema. Ma torniamo al presente. Il Vicenza, sommerso dai debiti e ‘salvato’ momentaneamente lo scorso 18 dicembre dal solito imprenditore in cerca di pubblicità (o solo testa di legno, vai a capire) legando il suo nome a un club di calcio, tal Sanfilippo (ma poco abituato ai miracoli, a dispetto del nome), ha una voragine debitoria di 580 milioni. La scorsa settimana i giocatori si sono rifiutati di scendere in campo per una insignificante partita di Coppa Italia, inducendo uno sciopero -sostenuto dai tifosi- dopo l’ennesimo ripensamento da parte del patròn (?!) di erogare gli stipendi.

Riflessione: di recente la Banca popolare di Vicenza ha attraversato un momento finanziario nerissimo, che s’è ripercosso a effetto domino nei totem cittadini, come è appunto il calcio, sostenuto come main sponsor nemmeno due stagioni fa (e fino al 2018…). La bolla è esplosa anche nel Veneto felix, è lampante. È proprio di questi giorni del resto il processo a carico dell’ex presidente della Banca popolare di Vicenza Gianni Zonin, che ha polverizzato coi vertici bancari gli investimenti di 120mila azionisti. E quindi ora? Quindi oggi è intervenuta la Procura che ha chiesto il fallimento del club, in seguito alle indagini da parte della polizia tributaria che avrà scovato chissà quali carte interessanti in sede sociale; il tribunale ha accolto la richiesta e ha avviato la procedura fallimentare pilotata (la strada che fu seguita per il Latina lo scorso anno). Obiettivo? Salvaguardare il campionato, ma nelle aste fallimentari che seguiranno per acquisire il club difficilmente apparirà un imprenditore capace di sborsare soldi per poi affrontare l’abisso dei debiti. L’agonia economica di questo Paese non risparmia nemmeno la passione sportiva, mietendo ogni stagione vittime illustri.

Banca Carige, salvezza sofferta o effetto MPS?

Non c’è pace tra le banche italiane. E il dilemma è sempre lo stesso.

Un déjà vu. Peggio, una moda. Salvare le banche. Con un intervento governativo, con tanto di effetto domino o per gli obbligazionisti o per i contribuenti. Insomma, una linea di condotta che affonda l’esempio nella salvezza recente delle due banche venete (Antonveneta e Popolare di Vicenza).

Ancora non si conoscono le nuove strategie per attutire le passività della CariGe, forte banca di origine ligure, colpita da una crisi che è sfociata nei tempi recenti in accuse di truffa ai vertici e soprattutto nella mancata volontà di creare un paracadute da parte delle tre banche del consorzio di pre-garanzia (Deutsche Bank, Credit Suisse e Barclays): la ricapitalizzazione di 560 milioni di euro spetterà ai soci interni, in una scalata da Risiko di dimensioni più ridotte, tra chi comanderà nel futuro imminente e chi invece inevitabilmente verrà estromesso.

Certo, siamo lontani dalla gestione di Giovanni Berneschi, condannato a febbraio 2017 a 8 anni per aver truffato le assicurazioni del gruppo, ma proprio per questo la richiesta della Bce è stata perentoria: aumento del capitale di 560 milioni, richiesta cui s’è fatto fronte vendendo immobili di proprietà (pari a 107 milioni) e convertendo dei bond subordinati, che aveva suscitato l’appetito di alcune compagnie, ma di cui oggi ancora si sa poco nella oggettiva concretezza.

Con lo scioglimento delle Camere per via delle imminenti elezioni politiche in programma il prossimo 4 marzo, la situazione dell’istituto bancario genovese resta nella zona rossa, perché se da una parte l’intervento del governo è fermo all’ordinaria amministrazione (ma sarà così? Ci crediamo?) dall’altra la richiesta delle aspettative Bce (e degli investitori, ma anche dei contribuenti) s’è concentrata in una partita interna. Il vicepresidente della CariGe, Vittorio Malacalza, ha manifestato l’intenzione di accaparrarsi quote maggiori delle attuali.

Anche se poi un’altra soluzione c’è ancora, cioè l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi, ma non è questa la strada per il paradiso, perché così si continua a stressare l’intero sistema bancario italiano (fino all’esplosione finale).

In questo scenario non tramonta l’ipotesi di una ricapitalizzazione precauzionale da parte dello Stato, con azzeramento degli azionisti e conversione delle obbligazioni subordinate in azioni. Del resto, come successe 2 anni fa per Mps. Come si noterà il corso e ricorso storico della cronaca bancaria è sempre più recente. E non sempre a lieto fine.

 

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